Se mi chiasmano...:«...Nell’estate 2006 accettai la panchina della Juve senza sapere se avrei allenato in C, in B e con quale penalizzazione. Si parlava di -30,-18... Fu un modo per sdebitarmi con chi mi aveva dato tantissimo nei 5 anni vissuti a Torino da giocatore. Ottenendo la promozione in A penso di avere saldato il mio debito, di essermi messo in pari. Quanto al futuro, chissà...».
Perchè la Juve non vince più...:«Dirlo dall’esterno è difficile. La mia posizione all’epoca era chiara: meglio prendere tre giocatori fortissimi all’anno, piuttosto che sei o sette di medio valore. Per essere all’altezza del proprio passato e delle aspettative che la circondano, la Juve ha bisogno di un continuo ricambio di campioni. Certo la qualità ha un prezzo, ma in quell’anno in B riuscii a lanciare giovani come Marchisio e De Ceglie, quindi potevamo concentrarci su pochi rinforzi di alto livello. E il discorso regge anche se parliamo di due grandi rinforzi, piuttosto che cinque arrivi di medio valore».
Il divorzio dalla Juve:
«...Sul momento mi sembrò una decisione giusta, coerente. Invece fu un errore tutto mio. Con il passare del tempo ho realizzato che la gente del calcio non aveva colto le ragioni di quella mia scelta. Le faccio un esempio: l’estate scorsa venni contattato dal Liverpool e la prima cosa che i miei interlocutori mi chiesero durante la riunione fu:“Perché se ne andò dalla Juve?”»....«Io e la società avevamo visioni diverse sul futuro e devo dire che anche chi mi stava vicino, come il mio agente, non mi consigliò al meglio. In pratica nulla fece per ricomporre la frattura. Fatto sta che venivamo da un’annata psicologicamente difficile, in cui ci ritrovammo in città e stadi mai visitati prima dalla Juve. Ogni partita era una battaglia. Consumammo davvero molte energie e sapevo che le aspettative l’anno successivo sarebbero state ancora più alte. Ma non si poteva pretendere di vincere subito lo scudetto, bisognava andare per gradi. Ricostruire».