Dalla stazione dei treni alla grande moschea che segna il centro di Kashgar ci sono poche fermate di autobus. Quattro o cinque stop, durante i quali si sorpassano edifici freschi di ristrutturazione, una fabbrica che porta il logo di una compagnia petrolifera e dei giardini perfettamente ordinati fino ad arrivare all’altissima statua di Mao Zedong, che dal lato destro della via principale saluta il traffico con il suo braccio teso all’insù.
“È da anni che cerca di fermare un taxi ma qui nessuno lo considera” scherza Frances, un australiano con la barba fino al petto che ha fatto della regione tra Cina, India e Medio Oriente la sua seconda casa. Il grande Mao non fa parte del centro di Kashgar, ma è forse il più imponente simbolo dell’anello cinese che intorno al cuore della città si stringe sempre più stretto. Quegli edifici nuovi, gli uffici, i palazzi che con l’ormai piccolo centro degli islamici hanno poco a che fare.
La tratta da Urumqi a Kashgar è la più lunga del mio viaggio in Cina, con 24 ore di treno. Un giorno intero per arrivare dalla capitale dello Xingjinag a questa cittadina che rappresenta l’estremo occidentale della Cina. Kashgar è a due passi dal confine, da qui in poche ore si raggiunge la leggendaria Karakoram Highway che porta in Pakistan, con altrettanta facilità si potrebbe raggiungere l’Afghanistan o il Tajikistan e superando i due passi di montagna che si presentano a nord-ovest, l’Irkeshtam e il Tougart, si sbuca in Kyrgyzstan. Un tempo Kashgar era uno degli snodi principali della Via della Seta, dove mercanti arabi, mongoli, europei e cinesi si incontravano per scambiare merci. Se non bastasse le più grandi riserve di pertrolio e minerali dell’Asia orientale, si trovano proprio sotto il suo suolo.
Arrivato alla mia fermata, di fronte alla moschea Id Ka, cerco l’orientamento per capire dove si trova il Pamir Youth Hostel. Il colore che prevale, qui, è quello della sabbia. Un giallo chiaro, sbiadito, dipinge le mura di case e negozi, ma al contempo scompare del tutto da dove prima era prevalente: dalla pelle dei suoi abitanti. Tecnicamente qui sono tutti cinesi, anche se è difficile crederci. Se non è la pelle scura a dare subito nell’occhio sono le folte barbe lunghe, i cappelli squadrati che spuntano verdi o bianchi sulle teste di tutti gli uomini, ma soprattutto i veli che coprono intermente buona parte delle donne, a sostituire le minigonne e i tacchi alti della costa di Shanghai e Pechino. Questi sono gli Uygur, un altro popolo senza terra all’interno dei confini cinesi.
Prima di arrivare a Kashgar, e più in generale in Xingjiang, ero preoccupato. Seppure spesso è sbagliato giudicare una destinazione da poche, vaghe, notizie sporadiche, questo non si può considerare il luogo più sicuro in cui viaggiare. Un mese fa ad Urumqi una bomba al mercato centrale ha ucciso 43 persone. Il giorno prima del mio arrivo nei dintorni di Kashgar la polizia cinese ha sparato e steso 13 persone che stavano per far esplodere la centrale di polizia. Il confine con il Kyrgyzstan, dal quale sarei dovuto passare, era bloccato per una protesta politica che stava prendendo piede sull’unica strada a disposizione. La decisione di proseguire comunque in questa direzione è stata un misto di “incrociamo le dita“, “stanno esagerando” e “forse sto facendo una cazzata“.
Il sistema ormai è testato: incentivare il trasferimento di cinesi Han nelle aree più remote, attraverso lavori ben pagati e sussidi statali, per diluire le popolazioni locali e diminuirne così il potere. Quello che gli Uygur vorrebbero essere l’Est Turkestan è tanto Cina quanto lo è Pechino, sulla carta. Nella realtà, qui il cinese non si parla neanche. Invece di zuppe di noodles si trovano stufati di montone, invece dei dumplings c’è il naan. Il centro storico della città, che prende vita attorno alla moschea, ha un raggio di poche centinaia di metri. Chissà perché viene mantenuto intatto, se per favorire il turismo o per mantenere calmi i locali. Al suo esterno, in ogni direzione, una città diversa cresce, cambia, progredisce, mentre al suo interno la chiamata alla preghiera proveniente dai minareti detta il ritmo della giornata.
Kashgar è cinese per un pelo. Cosa ne sarebbe se la mappa cambiasse non lo so. Forse non riuscirebbe a competere, diventerebbe un altro dei paesi sotto il titolo di “terzo mondo”. Forse sarebbe un altro Afghanistan. Forse sarebbe uno stato anonimo, ma autonomo e magari felice. Forse è inutile pensarci, perché questa è e sarà sempre la Cina, con o senza consenso, con o senza bombe. Troppo preziosa per essere lasciata andare, Kashgar è Cina. Ma una Cina che non avete mai visto.