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Opera primissima di Peter Strickland, assolutamente inglese di nascita nonostante il film sia stato girato intorno ai boschi vibranti che segnano il confine tra la Romania e l’Ungheria. E la scelta di questo particolare set si rivela azzeccata, perlomeno intrigante quel tanto che basta per incuriosire, perché le ambientazioni bucoliche vincono spesso e volentieri data la loro innata forza vitale, naturalità primigenia nel respiro del vento filtrato dalle fronde, labirinti di rami e foglie che occultano orrori indicibili al mondo esterno e ne riportano l’invariato orrore a distanza di anni. In più, ed è un più che vale tanto come avevo avuto modo di dire parlando di Bartas, quella precisa zona geografica sormontata a est dall’immensa Russia e a ovest dall’attraente Europa, possiede un che di magico di atemporale, anche solo nelle rughe di un vecchio o negli sguardi pieni di vita dei bambini dagli abiti sgualciti.
Non basta questo, ovviamente. Non basta mettere un paio di attori in un territorio agreste per fare un buon film. Sì, quello può essere un discreto bonus aggiuntivo in grado di alzare il voto nel bilancio finale, se però in queste terre dimenticate da dio non si mette in piedi una storia come proprio lui comanda allora ci si presenta ad un bivio: o il regista sopperisce alla mancata narrazione con una tecnica sopraffina (e non è questo caso), oppure l’opera fallisce, che in parte è questo caso.
Dico che non ci troviamo dinanzi ad assenza di professionalità, piuttosto a poca dimestichezza con il linguaggio cinematografico nell’ostinato tentativo di donare un alone soprannaturale alla pellicola che non lega granché con gli ambienti selvatici e – per me – un po’ rozzi che la costituiscono. I suoni riverberati, echi di cose indefinite sprigionati dalla selva, immagini fuori fuoco e quant’altro sono piccoli tranelli adoperati per rabbonire lo spettatore, operazione legittima vista la paternità esclusiva di un film, però è necessario dare fluidità al proprio lavoro per far sì che venga avvertito nella sua completezza, mentre qui le parti oniriche contribuiscono ad uno scollamento del comparto visivo nei confronti delle parti reali. Insomma, io ho sentito che tali parentesi siano state inserite solo per suggestionare e creare un po’ di confusione, nell’economia del narrato, però, hanno pochissimo peso.
Nella vicenda ha invece peso il sentimento di vendetta che iscrive Katalin nell’albo delle vendicatrici istituitosi con Thriller (1974). Ci sono situazioni rispettose del filone rape & revenge come l’adescamento del primo malcapitato realizzato proprio bene nella sfrenata danza gitana, e ce ne sono altre, ad esempio il flashforward iniziale depistante o la confessione della donna al suo aguzzino sul placido fiume nella splendida cornice del tribunale più imparziale del mondo: quello della natura, che funzionano se non bene almeno abbastanza. Si tratta comunque di piccoli pezzetti che non hanno una connessione convincente. Preso nella totalità, dal suo inizio al suo finale Katalin Varga racchiude punte di buon cinema controbilanciate da evitabili mediocrità generate da vacui tentativi di imitazione (si parla di Lynch, ma ho notato una predisposizione al male più vontrieriana) che abbassano il livello generale.
Strickland ha per fortuna dalla sua l’età, ed avrà tempo per migliorare il suo cinema.
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