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Kazimierz Orlosh (1935), prosatore, drammaturgo e sceneggiatore polacco

Da Paolo Statuti

 

   Dopo tanta poesia, vorrei aprire ora una parentesi di prosa, pubblicando alcuni racconti brevi polacchi inseriti nella mia antologia Viaggio sulla cima della notte, edita nel 1988 da Editori Riuniti. Ho scelto i racconti in base al mio gusto personale e lasciandomi guidare dal sentimento della poesia e dai sentimenti umani. Il primo racconto è di Kazimierz Orłoś ed è intitolato

   Il maestro di musica

   A quel tempo vivevo in una misera abitazione. Le finestre della mia stanzetta in un palazzo alla periferia davano su un cortile a forma di pozzo. Ogni voce dal basso, dalle finestre socchiuse – un grido o il pianto di un bambino, lo schiamazzo di donne litigiose, una radio accesa, perfino una conversazione a bassa voce – si sentivano chiaramente, come se mi trovassi alle spalle delle persone nei loro appartamenti e ascoltassi senza sosta. Il tintinnio delle bottiglie del latte, trasportate su un carrettino di lamiera da uno sciancato, mi svegliava alle cinque di mattina. Il canto del carbonaio ubriaco, che occupava l’appartamento al pianterreno, mi strappava al sonno a mezzanotte. Le risatine del figlio deficiente del portiere – un ragazzo grasso che se ne stava tutto il giorno in cortile – le sentivo a mezzogiorno e la sera. Ero tormentato da tutti quei rumori. Ero al limite della sopportazione.

Il vecchio abitava accanto. Adesso lo so, ma allora, quando già studente avevo preso in affitto quel buco di stanza con le finestre che davano sul cortile, non gli avevo prestato attenzione. Soltanto quella soffocante mattina, mentre sgobbavo su un grosso manuale di fisica, rompendomi il cervello con la teoria dei quanti, e quello cominciò a sonare dietro la parete (mi sembrava di essere in una sala vuota in cui qualcuno tagliasse un vetro col diamante), pensai che molto probabilmente doveva essere quell’uomo incurvato che a volte incontravo sulle scale, quando, ansimante, si fermava per un attimo al mezzanino.

Da dietro la parete sentivo chiaramente il concerto per violino. Dovevo ascoltare ininterrottamente e fino all’ultima nota tutti i fraseggi della Leggenda di Wieniawski, o era forse L’addio alla patria di Ogiński? Sonava motivi sentimentali, noiosi da ascoltare come un lungo discorso o una poesia imparata a memoria. I miei quanti erano già andati a farsi benedire, per giunta dietro la finestra i bambini facevano chiasso, le donne schiamazzavano nelle cucine, il carbonaio ubriaco cantava una canzone da ubriaconi.

Non resistetti e battei più volte il pugno sulla parete. Ma servì a ben poco. Era forse un po’ sordo? Il tenue suono fluiva incessantemente da dietro la parete, come una voce lamentevole, come il canto del muezzin che invita alla preghiera.

Aspettai mezz’ora, poi uscii sul pianerottolo e bussai alla porta del vicino. Ricordo che il pianto dello strumento cessò di colpo, come troncato. Sentii lo strascichio delle pantofole, poi quel vecchio chiese sottovoce: – Chi è?

- Il suo vicino – risposi seccamente.

La porta con la catena si aprì di uno spiraglio. Fiutai un odore di umido, di appartamento non arieggiato, di muffa mista a un odore di naftalina. Il vecchio, la cui faccia pallida e non rasata scorsi nello spiraglio, mi fissava incuriosito con gli occhi piantati a un palmo dal mio naso. Le sue dita sottili stringevano il battente della porta socchiusa. Notai delle macchie brune sulla pelle chiara.

- Signore – dissi bruscamente – la smetta di grattare! Mi scoppia la testa!

Mi guardò per un istante, e poi disse con un filo di voce:

- Sì, certo. Mi scusi. – E chiuse la porta.

E non sonò più, né in quella soffocante domenica, né in nessun’altra. Molto probabilmente mi sarei dimenticato di lui, se un giorno d’autunno non avessi deciso di fare una passeggiata fuori città. Dalla strada asfaltata girai verso i campi e battendo il bastone sulle pietre presi un sentiero che portava a un bosco lontano. Là lo vidi. Dapprima mi sembrò un altro (un’apparizione, un uomo non di questo mondo). Ma era lui di sicuro: la stessa figura incurvata, la faccia pallida e non rasata, gli occhi scuri. Stava seduto su una seggiolina pieghevole di fronte a un improvvisato leggio di rametti, sul quale aveva posato il foglio di musica. Sonava al violino quella stessa Leggenda di Wieniawski, o era forse L’addio alla patria? Mi fermai a cento passi da lui, poi gli andai più vicino. Ascoltavo come sonava e come la voce lamentevole del violino si levava sul campo deserto. Guardavo il margine del bosco, l’azzurro del cielo, gli uccelli neri (di sicuro uno stormo di cornacchie) che volteggiavano sulle stoppie. Quell’uomo sonava piegato sul leggio di rametti, con accanimento, assente, come se vedesse il mondo intero nei neri punti delle note. Il violino piangeva sconsolato. Non c’era nessuno.

Restai lì per un po’, quindi lentamente, senza voltarmi, ripresi a camminare in direzione della strada asfaltata e della nostra casa, nella quale lo schiamazzo delle donne, le grida dei bambini e il canto del carbonaio ubriaco era tutto ciò che potevo sempre sentire.

(Versione di Paolo Statuti)

Nauczyciel muzyki (Il maestro di musica), pubblicato nel dicembre 1972 sulla rivista Literatura.

(C) by Paolo Statuti



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