Ogni anno, in una grande città sparsa per il globo, si tiene una manifestazione sportiva, precisamente un campionato internazionale di calcio, un po’ diversa da quanto i media sono abituati a raccontarci, si tratta della Homeless World Cup, un torneo nato in Austria nel 2003 che come da nome annovera squadre provenienti da tutto il mondo composte soltanto dasenzatetto, anche se, va subito specificato, la dicitura homeless è più che altro una sineddoche per indicare un più ampio spettro di popolazione ai margini che comprende svariate tipologie di non rettitudine: abbiamo tossicodipendenti irlandesi, vecchi alcolizzati spagnoli, straccioni russi e categorie che sono lì per questioni che esulano dalla propria volontà, dalla propria storia personale: è il caso dei giocatori del Kenya, dell’Afghanistan e di tutte le altre nazioni africane che partecipano semplicemente perché è la nazione in cui vivono ad averli resi dei reietti.
Nella prima parte Kicking It (2008), che ci illustra la competizione svoltasi in Sudafrica nel 2006, si focalizza su alcuni di questi personaggi (e bisogna ammettere che sono proprio tali, d’altronde un tipo come Jesus non può guadagnarsi altra effige) rimbalzando da un continente all’altro con il suo fare da approfondimento televisivo: rapide visioni della vita presa in esame in cui vengono mostrate e raccontate situazioni prevedibili ma non di certo piacevoli, e narrazioni/pensieri dei diretti interessati che espongono i propri drammi, nuovamente nulla di impensabile per chi assiste ma in queste esistenze al limite consola un goccio vedere quanto lo sport possa ravvivare il fuoco della speranza e rinvigorire sentimenti assopiti da molto tempo.Terminata la presentazione il documentario comincia a riprendere lo svolgimento della coppa convergendo su alcuni match (ma continuando comunque ad interessarsi delle questioni extra-calcistiche con frammenti fuori dal campo) di cui vengono offerti, diciamo, degli highlights; qui la componente cinematografica scema non poco visto che le azioni vengono commentate da una telecronaca come quella delle partite “vere” (nota importante: si tratta di una variante del calcio indoor, il rettangolo di gioco è sulla strada, non ci sono fuori, e la sfida si costituisce in un 4 contro 4), inoltre i registi impiegano degli effetti visivi sfumati più vicini al piccolo schermo che a quello grande.
Sicuramente l’intento del progetto non era quello di “fare cinema” perché anche se presentato al Sundance Kicking It non ha alcuna velleità artistica. Comunque, a fronte delle ingenuità sopramenzionate, il film riesce a certificare quanto e come lo sport, e quindi il calcio (questo calcio, lontano anni luce dall’universo grondante di denaro che è ormai il gioco (?) del pallone), possa ridurre le distanze e tirare fuori quanto di buono c’è nell’essere umano, anche quello che dal mondo civile viene difficilmente visto come tale, e allora questo calcio così pulito è capace di regalare un paio di momenti da ricordare come la vittoria della Spagna (prima e ultima ma che per loro vale come la conquista del trofeo), o il giovane afghano che uscito per la prima volta dai confini natii trova nella normalità di un paese “occidentale” un susseguirsi di meraviglie da renderlo un bimbo con lo zucchero filato dentro il luna park: un paesaggio può essere il luogo del trapasso descritto dal Corano, una ragazza paraguayana conosciuta sul posto può diventare l’amore, senza che vi sia contatto verbale e praticamente neanche fisico: ad unirli, in questo caso, ci ha pensato lo sport, e vedere una cosa così, al giorno d’oggi, fa piacere, davvero.