Sono giorni che continuo a farmi domande. Quando è iniziato il mio viaggio? Dove ero diretto quando sono partito? Qualche volta non me lo ricordo più ma ricordo con una lucidità imbarazzante la sensazione provata scendendo dal taxi che dall’aeroporto mi aveva condotto alla mia nuova dimora, il caldo afoso che mi avvolse, il senso di solitudine, i rumori assordanti e gli odori pungenti, la bocca arida. Quasi un risveglio dei 5 sensi da un lungo torpore. Ero arrivato a Bangkok; in breve la fine della migrazione sarebbe diventata l’inizio del mio viaggio. Un viaggio che dura tuttora e che mi ha portato fra la gente più che in posti.
In questi 4 anni l’alternanza delle piogge e della stagione secca hanno battuto il ritmo del tempo che scorre, scandendo cicli invariati nei secoli. Piogge che alimentano i fiumi e danno vita alla terra. Piogge in grado di dare sollievo dal caldo e, al tempo stesso, capaci di distruggere impietosamente.
Mappa della Thailandia
Sono giunto alla terza tappa di un viaggio nel viaggio; una sosta più che un percorso, un riposo dalla vita frenetica della metropoli. Dopo la semina e la mondatura è arrivato il momento della raccolta. Memorie del ritorno in Isaan.
Anche questa volta ho impiegato mesi per mettere ordine alle emozioni provate in questa terra ai confini del futuro. Perché l’Isaan ti entra dentro e rende difficile esprimere a parole le emozioni che suscita. Ho già detto che non so cosa sia il mal d’Africa ma sono sempre più convinto che la mia Africa sia questa parte del nordest della Thailandia schiacciata fra la Cambogia e il Laos, questa regione per lo più pianeggiante che non essendo bagnata dal mare è ancora ignorata dal turismo di massa; una terra in cui la gente è genuina e accoglie con iniziale diffidenza l’occidentale. Una terra che si descrive da sé nel chiamarsi Isaan!
Fare il mondino è stata un’esperienza esaltante anche se in molti hanno sorriso (o forse riso dandomi del matto) guardando le foto che mi ritraevano coi piedi a bagno , piegato in due a strappare dalle risaie le piante infestanti che sottraggono nutrimento a quelle del riso. È stato un modo per sentirmi integrato fra le persone che con tanto affetto mi hanno saputo accogliere. È stato allo stesso tempo il modo violento con cui la Thailandia mi ha fatto capire che per quanto mi possa impegnare non sarò mai completamente a casa in questo paese.
E con ansia ho atteso l’inizio della stagione secca perché quella di quest’anno ha segnato la fine del count down per la mietitura del riso. Ancora una volta la fine di qualcosa è l’inizio di qualcos’altro. All’inizio di novembre le piogge sono già cessate e l’acqua si ritira dalle risaie. Il sole fa imbiondire le fragili spighe di riso che si piegano come ad arrendersi all’imminente arrivo delle falci.
Finalmente si parte. Come sempre il viaggio è a tappe, di notte, in un lussuoso-iperscomodo e affollato bus notturno che per 10 ore scorrazza verso nord, facendo una breve sosta a metà strada per far sgranchire le gambe a chi non riesce a dormire e far smettere lo stomaco di brontolare a chi, come noi, non ha fatto in tempo a cenare prima di mettersi in viaggio..
La stanchezza per la notte passata praticamente in bianco svanisce mano a mano che il sole inizia a far capolino da dietro le colline, lasciando intravvedere un paesaggio che i miei occhi iniziano a riconoscere come familiare. Arrivati a Sakon Nakhon la rituale passeggiata al mercato per far scorta di tutto quello che ci servirà nei prossimi 10 giorni: non ci sarà tempo di tornare in città. Il lavoro nei campi occuperà i nostri prossimi 10 giorni: un misto di gioia e ansia iniziano a pervadere la mia testa. Sopravvivrò a questa nuova prova? Ovviamente se sto scrivendo questo la risposta è sì ma vi assicuro che in quel momento l’ho pensato! Niente acqua calda, niente tazza nel cesso (lato positivo: la muscolatura delle gambe poi sembrerà quella di un culturista palestrato), niente acqua minerale, niente letto o materasso, niente internet, niente tv ma soprattutto niente inquinamento, niente stress, niente treni affollati né gente con il broncio per stupidi motivi.
La spiga
All’arrivo al villaggio la casa di Noom si anima di voci e bambini festosi accorsi per vedere cosa sia arrivato per loro da Bangkok. Basta poco da queste parti per essere felici: un busta di caramelle, un cartone animato della Disney in DVD (ovviamente comprato dal solito tizio su Silom Road), una t-shirt nuova ciascuno e una macchinina telecomandata destinata ad essere smontata e distrutta in meno di 24 ore sono un tesoro capace di tenere 4 vivaci monelli impegnati per diverse ore.
Io voglio andare nei campi ma non mi viene permesso. Come al solito il nostro arrivo è motivo di festa per tutti e, con la scusa che il viaggio ci ha stancati e che dobbiamo riposare, sono costretto a frenare il mio entusiasmo! Passiamo il tempo a chiacchierare e a mangiare quello che le donne hanno preparato apposta per noi. Le ore passano veloci e, poco dopo il tramonto, è per tutti ora di andare a letto (in realtà dovrei dire a dormire visto che a questo giro siamo in tanti nella casa e non ci sono materassi per tutti quindi una coperta sul pavimento sarà il mio giaciglio per 10 giorni).
Il profumo del riso che dopo essere stato cotto viene fatto freddare e della carne di maiale sono un ottimo sostituto all’assordante squillo della sveglia. Alle 5 del mattino la luce è debole e l’aria fresca e pungente mi fa esitare ad uscire da sotto le coperte. Alle 6, prima di fare colazione, si portano le offerte al tempio e si prega perché la giornata sia proficua. Prima delle 8 tutti sono già pronti ad andare nei campi. Inizia una nuova esperienza.
Raccolata
Qui le famiglie più ricche hanno deciso di ammodernarsi e così, anche a Na Hua Bo, a 29 km da Sakon Nakhon, sono arrivate le mietitrici automatiche che contemporaneamente trebbiano pure. Per la famiglia di Noom la novità quest’anno non è una scintillante macchina automatica ma è avere me come bracciante. Mentre andiamo alle risaie la gente che incontriamo per strada rimane per qualche minuto a bocca aperta, sorride e parlotta. La mamma di Noom mi prende sotto braccio e sorride all’idea che dovrà insegnarmi tutto su come si raccolga il riso.
Per noi –oramai faccio parte della famiglia- niente meccanizzazione, il riso lo raccogliamo a mano, spiga per spiga, lasciando a terra solo quelle contaminate dalle muffe e che potrebbero rovinare il resto del raccolto. In fondo come fa una macchina a riconoscere la spiga buona da quella cattiva? I chicchi cadono così facilmente che molto (troppo) di quel bene prezioso andrebbe inevitabilmente perduto. E poi non c’è fretta di finire, giorno in più o giorno in meno non è che faccia molta differenza.
Maniche lunghe, guanti e cappello sono l’uniforme che dobbiamo indossare nonostante il caldo. Proteggersi dal sole, dagli insetti e dall’abbraccio irritante con le ruvide spighe è prioritario sull’asfissiante calura di novembre.
Mietitura
Le piccole falci affilate recidono precise gli steli: una mano afferra le spighe allontanandole dal corpo e volgendole verso terra mentre l’altra impugnando la falce le taglia con un colpo netto, salendo dal basso verso l’alto a formare un angolo di 45 gradi. Un movimento preciso, monotono che si alterna con l’adagiare amorevole dei mazzi di spighe uno accanto all’altro a formare dei sentieri. Ogni 2 ore una breve pausa per bere e poi il pranzo tutti insieme al riparo dal sole sotto un albero. Finché c’è luce si va avanti.
Al rientro a casa i bambini massaggiano le schiene dolenti di chi ha trascorso la giornata nei campi. Un bicchiere di birra e un piatto di riso non mancano a concludere la giornata. La nascita di un nuovo bufalo allieta una delle nottate (ma questa è un’altra storia) e la visita di un’amica di famiglia ci concede mezza giornata di riposo…
E così fino a che tutte le spighe sono adagiate e pronte per essere raccolte e trasportate a casa. C’è chi la battitura la fa ancora a vecchia maniera facendo sì che sia il vento a separare i chicchi dalla “pula”. È una festa vedere il frutto di tanta fatica splendere come oro e riempire la casetta di legno da cui verrà preso ogni giorno per saziare l’intera famiglia per tutto l’anno.
Sul carro
Il momento di tornare a casa è arrivato. I sorrisi sono velati da uno strano senso di malinconia saggiamente spezzato dal padre di Noom che con orgoglio porge a me e a suo figlio il frutto del duro lavoro. Questa volta il bus è pieno di gente stanca. Nessuno fatica ad addormentarsi sulla strada verso Bangkok. Le luci della metropoli che si sta svegliando segnano la fine di un’avventura che ancora una volta si chiama Isaan!
*PREMESSA: Una premessa per definizione andrebbe all’inizio, lo so… Non chiedetemi perché l’ho inserita alla fine. Se però la state leggendo forse vuol dire che siete arrivati alla fine di questo brano. Premetto che in genere faccio ospitare ad altri queste mie elucubrazioni perché non le sento mie o, forse, perché le voglio condividere con il mondo o, più probabilmente, perché un po’ mi vergogno di mettermi a nudo e far sapere chi sono davvero ai miei amici. Oggi però accolgo una sfida e mi racconto con la massima semplicità di cui una mente contorta sia capace. Aggiungo solo che spero mi votiate e che i link inseriti in questo brano sono compendio a questa storia che si chiama Isaan
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