Magazine Cinema
di William Friedkin
Negli anni 70, all’epoca di quella fucina di talenti e di grandi film che fu la New Hollywood ci fu un cineasta che più di altri si conquistò la nomea di regista “scandaloso”. A fargli guadagnare l’appellativo contribuirono tre film: il primo fu “Il braccio violento della legge” (1971), onesto e lucido nel fotografare con verità neorealista pregi e difetti dei difensori della legalità, non facendo sconti a nessuno quando si trattòdi mostrare uno dei protagonisti coinvolto in un rapporto sessuale con una minorenne. Seguirono poi “L’esorcista” (1973), capace di far vedere in maniera "scientifica" quello che succede ad un corpo posseduto dal demonio, e “Crusing”(1980) in cui Al Pacino fu utilizzato come sonda di un mondo omosessuale che veniva svelato e messo in discussione, generando il malcontento della parte in causa. Opere vietate, censurate contestate, messe al bando, sforbiciate dagli stessi produttori. Decontestualizzata dal proprio tempo questa fama potrebbe sembrare esagerata ed anche immeritata eppure all’epoca dei fattivedere Friedkin significava aderire e farsi partecipi di una visione spregiudicata ed immorale dell’esistenza.
Rispetto a quei tempi “Killer Joe”, la sua ultima fatica, non ha la stessa forza perché nel frattempo siamo stati abituati a convivere con la visione dell’orrore. Ed è forse per questo che il regista di Chicago ha pensato di correre ai ripari adottando uno stile che mischia il serio al faceto, dramma e commedia, con angoscia e iperrealismo chiamati ad alternarsisulla scena di un’esistenza di quotidiana follia. Al centro della storia una famiglia di rednecks avvilita da ignoranza e mancanza di denaro. L’altra faccia di un sogno americano richiamato dall’opzione di un benessere improvviso, regalato alla famiglia Smith attraverso la possibilità di riscuotere i soldi dell’assicurazione sulla vita intestata alla madre, separata e convivente.Per forzare gli eventi in quella direzione l’improvvisato sodalizio decide di ingaggiare un poliziotto che arrotonda il suo stipendio uccidendo le persone su commissione e dietro lauto pagamento. E’ lui Killer Joe, un angelo della morte freddo e sistematico fino a quando si invaghisce di Dotti, sorella un po’ tarda di Chris,il figlio che ha ideato ilpiano allo scopo di recuperare in tempo utile i soldi di un debito che potrebbe costarglila vita. Da quel momento tutto si complica e si distorce spingendo la storia verso una conclusione tanto drammatica quanto grottesca.
Friedkin ha un solo scopo: distruggere i pilastri della società americana. Per farlo azzera qualsiasi differenza all’interno del nucleo familiare attorno a cui ruota il film. E lo fa in maniera diretta e senza alcun rispetto per la forma, a cominciare dalla prima scena con il full frontal della matrigna di Chris (una Gina Gershon invecchiata di colpo) sbattuto in faccia al ragazzo e allo spettatore. E poi continua senza distinzioni tra genitori (biologici o acquisiti) e figli, pronti a scannarsi per il più misero tornaconto. Incesto, matricidio, tradimento, pedofilia, tutto è possibile in questo inferno a cielo aperto. Senza stato ne famiglia, con la giustizia ridotta ad utopia l’America di Friedkin si misura nellaquantità di sangue versato. Per non farsi mancare niente e ricordandosi della lezione del collega Romero che attraverso i suoi “Zombie” criticava il sistema consumistico americano, anche Friedkin organizza il suo de profundis capitalistico con una delle sequenze più agghiaccianti ed allo stesso ridicole, quella in cui il personaggio di Gina Ghershon, in un crescendo di violenza e parossismo è costretta ad inginocchiarsi di fronte al killer ed a fargli una fellatio prendendo in bocca la coscia di pollo fritto, simbolo della tradizione americana ed allo stesso tempo oggetto da consumo, maneggiato come come fosse un vero fallo. Quel pollo fritto, usato e poi gettato con disprezzo è il crollo di ogni parvenza di efficienza e prosperità perchè tutto è destinato ad essere travolto dalla furia di un’umanità disperata. L’america non esiste più, inghiottita dentro l’oscurità della dissolvenza che chiude il film con il primo piano della pistola sul punto di far partire il proiettile che mette fine al gioco Alle prese con una storia di disfunzioni e di paura Friedkin non esita a cospargere il suo film con un apoteosi della carne rappresentata dall’esposizione in bella vista di corpi attoriali in disfacimento per cause naturali, date un’occhiata al corpo voluttuosamente imperfetto di Juno Temple ed a quello rifatto e sovrappeso di Gina Gershon per farvene un' idea, oppure come conseguenza delle sevizie e della violenza subite, come accade a Emili Hirsh (Chris) malmenato e tumefatto, e cartina di tornasoledi una corruzione che distrugge l'individuo in senso fisico. In alternativa spaccia con un sorriso ghignante momenti di romantica sublimazione nella relazione tra Joe e Dotti, in cui lo slancio sentimentale e rarefatto ha quasi sempre risvolti pragmatici, basti pensare al primo incontro dove la cena a lume di candela diventa il preliminare di peepshow terminato con un voluttuoso amplesso. Una scelta rafforzata dalla presenza costante di elementi naturali come l'acqua (nella prima parte del film la pioggia fa da sfondo alle azioni dei personaggi),e il fuoco, oppure ancestrali come il sogno e la pulsione –incestuosa quella di Chris nei confronti della sorella, amorale quella di Joe nei confrontidella ragazzina – a ricordarci tutti insieme che "Killer Joe" è un esplosione irrazionale di istinti primordiali. Se la parte centrale è quella meno efficace, con uno sviluppo della vicenda ordinario e qualche passaggio affrettato – la sottotrama relativa all'ultimatum dei creditori nei confronti di Chris viene abbandonata senza nessuna conseguenza – a rimanere in mente è quello che succede prima e dopo, in cui Friedkin sembra rendere merito ad un cinema che mette insieme Lynch, nella prima parte, quella dedicata alla presentazione dei personaggi e della storia, e Tarantino, nella parte conclusiva, quella della resa dei conti. Presentato in concorso nell’edizione 2011 del festival veneziano “Killer Joe” segna il ritorno di un regista che non conosce normalità.
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