Torno a parlare di un argomento che mi sta particolarmente a cuore: quello dei costi ambientali dei nostri consumi alimentari. Già nel primo articolo che ho scritto per questo sito-blog ho cercato di evidenziare alcune relazioni che intercorrono tra il nostro carrello della spesa e l’ambiente. È ormai certo che la globalizzazione dell’industria alimentare concorre in maniera significativa al depauperamento delle risorse del Pianeta. Se fino a 50 anni fa il cibo veniva spostato solo per brevi distanze, oggi può viaggiare per centinaia o migliaia di chilometri ed è chiaro che tutto ciò ha delle ripercussioni sull’ambiente: sia in termini di emissioni di Co2, che di inquinamento atmosferico e acustico, di traffico veicolare, di consumo energetico, etc. Negli ultimi anni si è cercato di valutare questo impatto attraverso il conteggio dei Km percorsi dagli alimenti, i cosiddetti “food miles”. Il ragionamento che sta dietro a questo concetto è piuttosto semplice: più un cibo ha viaggiato, più risorse ha sfruttato e dunque più è impattante.
Da qui, l’idea che per ridurre la nostra impronta ecologica sia da preferire la spesa a Km 0. Sono molti però gli aspetti che non vengono considerati da questa tesi, come per esempio il fatto che circa il 48% dei Km percorsi dal cibo è attribuibile al compratore; il quale, generalmente, non va a fare la spesa in bicicletta! Altri studi hanno evidenziato come, in realtà, il consumo di cibo locale non consenta un reale risparmio energetico: un minor consumo di energia sembrerebbe invece legato alle dimensioni dell’azienda (più le aziende sono piccole e meno sono efficienti dal punto di vista energetico). Sembrerebbe, infatti, che serva meno energia per produrre carne d’agnello in una grande fattoria neozelandese e portarla via mare ad Amburgo, che produrla in una piccola fattoria in Germania; questo perché si devono considerare le diverse caratteristiche ambientali e climatiche. Per questi, e altri motivi, un indicatore unicamente basato sui chilometri percorsi non può essere un indicatore valido dell’impatto complessivo della produzione di un dato bene. Anche perché trascura completamente le implicazioni sociali ed etiche.
Con questo non voglio assolutamente dire che sono contro la spesa a chilometro zero (anzi!), voglio solo evidenziare il fatto che siano da tener in considerazione anche altri aspetti quando si fa la spesa, che vanno ben oltre la sola vicinanza. È vero che consumare cibo locale, oltre che essere più salutare, contribuisce alla tutela della biodiversità (qualora i produttori appoggino la coltivazione di specie autoctone), a conservare saperi e tradizioni culturali (il cd. patrimonio immateriale) e a salvaguardare gli splendidi e variegati paesaggi rurali della nostra penisola. Penso però che al concetto di Km 0 vada necessariamente affiancato quello di Km equo: avete mai considerato che il sostentamento di oltre un milione di persone dell’Africa rurale dipende dall’importazione di prodotti ortofrutticoli da parte dell’Europa? Se consideriamo solo il concetto di food miles, finiamo per ignorare altre dinamiche di ordine sociale altrettanto importanti. Facciamo un banalissimo esempio: le emissioni medie di un cittadino italiano sono di molto superiori rispetto a quelle di un cittadino del Kenya. Se ci rifiutassimo di acquistare le derrate alimentari prodotte nel Sud del Mondo, finiremmo con il penalizzare queste realtà a bassa emissione, limitando il loro diritto allo sviluppo. A mio avviso, all’interno di questo discorso, il rapporto di sfruttamento che da tempo lega la nostra storia a quella di questi paesi merita la giusta considerazione: con tutta la Co2 che emettiamo quotidianamente in atmosfera, penso che potremmo permetterci di immetterne ancora un pochino per sostenere lo sviluppo di chi di gas serra ne immette giornalmente quasi 35 volte meno!!! Senza contare che, se acquistiamo prodotti equo-solidali, scegliamo di sostenere un sistema che, facendo del rispetto dell’ambiente e della diversità genetica uno dei suoi pilastri portanti, da anni si impegna per promuovere lo sviluppo sostenibile di quelli che purtroppo ancora oggi dobbiamo chiamare paesi poveri.
Voglio concludere questa riflessione con le parole di James Mac Gregor dell’IIED (Istituto Internazionale per l’Ambiente e lo Sviluppo): “la gente che pensa di risolvere i problemi climatici del Pianeta evitando di acquistare cibo che ha viaggiato per lunghe distanze, in realtà rischia di affamare milioni di persone, negando loro il reddito di cui necessitano per la casa, l’alimentazione, la sanità e l’educazione dei figli, generando in definitiva nuove masse di disperati in fuga dalle proprie terre”.
Autore: Sara Colombo