Jason Richardson ha annunciato l’addio al basket: un’osteofita al ginocchio destro ha inchiodato al suolo uno dei saltatori più elettrizzanti dell’NBA postmoderna.
Saginaw, Michigan. Un diciottenne ossuto ed esplosivo insegue il diploma sui banchi dell’Arthur Hill High School, ma i tratti del gessetto sulle lavagne non gli accendono fantasie di grandezza; non ama neppure i segni nervosi che il coach imprime sulla plastica della lavagnetta. “Inevitabile”, sussurrano in tanti: se un’altezza jordanesca s’immerge nel TNT di un paio di gambe magre, i sogni volano sulle quote di Space Jam. “Jason Richardson, Mr Basketball of Michigan”, accarezza la canottiera verde di Michigan State, ma il viaggio è complesso: pochi salti e tanto pino, lunghi minuti a sedere e una voglia infinita di decollare verso la grandezza.
Il titolo NCAA dell’anno giubilare diventa un trampolino di crescita: Jason gioca poco, ma assorbe la forza di una squadra vincente. Respira e osserva, scruta e impara, scalda le suole con l’atletismo e riempie il bagaglio tecnico di semi. Nell’estate del 2001 l’esplosivo è pronto per il Draft: i Golden State Warriors lo scelgono con la quinta chiamata assoluta, ma la Lega lo accoglie con l’atmosfera febbrile del post-11 settembre. L’America ha bisogno di superare lo shock: the show must go on, ma le bandiere non nascondono lo spavento per un millennio iniziato nel peggiore dei modi. La prima festa vera si apre con l’All Star Game 2002 e Jason prende l’invito molto sul serio: dopo il Rookie Challenge, ricorda al mondo che lo Slam Dunk Contest può mantenere un senso anche dopo Vince Carter. Il primo successo non si perde nel vuoto: nell’anno da sophomore il ragazzo è già diventato J-Rich, ma non ha lasciato scorrere nell’aria la fame che gli accendeva lo sguardo sui campi di Saginaw. Altra gara delle schiacciate, altro alley-oop solitario, altra caduta corale di mascelle impazzite: di Jordan non ha più soltanto l’altezza, ma anche i due titoli consecutivi di miglior slam dunker della Lega.
La Bay Area si gode lo spettacolo dei voli verso il ferro, ma non trova mai il fuoco di una squadra vincente: anche nei Playoffs 2007, i Golden State Warriors si fermano subito dopo il clamoroso upset nei confronti dei Dallas Mavericks. J-Rich ha 26 anni e sta per scoprire quanto sanno di sale gli aerei NBA: il comfort non manca, ma quando la natura del girovago si impadronisce di un’atleta, la valigia divora i sogni di una lunga stabilità tecnica. Richardson vola verso Charlotte, ma si ferma solo un anno; il deserto dell’Arizona attende i suoi voli con impazienza per accendere la fantasia di una squadra irriverente, ma qualche guaio con i limiti di velocità stradali rallenta le ultime fasi della crescita tecnica. Jason avverte i primi acciacchi, ma non si arrende: mentre le quote degli zompi cominciano a scendere, riscopre gli insegnamenti tecnici di una carriera vorticosa e sfodera armi sempre più preziose. Tiri da tre punti e letture, fondamentali e spaziature: mentre “l’atleta” cerca di confermarsi, “la guardia” mostra alla Lega i frammenti di un bagaglio tecnico in progressivo allargamento.
J-Rich accudisce i ragazzini e li guida verso la fine della stagione, poi si mette al lavoro per tornare sul serio. Fino alla mazzata. Al tramonto dell’estate una risonanza magnetica mostra che i 34 anni della carta d’identità si sono manifestati sotto forma di uno sperone osseo nel ginocchio destro: i medici sostengono che l’attività sportiva agonistica non minaccerebbe solo il futuro dell’atleta, ma anche le possibilità locomotorie dell’uomo. Richardson si arrende e annuncia il ritiro: chi nasce per volare non può spegnersi senza nemmeno camminare.
Good luck, J-Rich!