La mia Migliore Amica aveva uno spirito precoce, capelli quasi rossi (non ne avevo mai visti, a parte le tinture di henna delle nostre madri, che al confronto mi sembravano patetiche per volgarità e artificio) e per finire una pelle della quale ammiravo la consistenza e il colore a mio giudizio seducenti e perfette. Le differenze di intelletto o le possibilità economiche delle nostre famiglie erano quanto di più lontano dai miei pensieri o dall’eventualità che io potessi in qualche modo revocare il mio amore per lei. Per dirla in altri termini, non c’era altro, ma quel che c’era per me era tutto. Quel giorno mi accolse sulla soglia con un bacio. Mi lasciai condurre in un giardino nel quale erano stati sistemate piante vistose e placche di cemento per non far crescere l’erba. Nel cucinotto, aperto sul cortile, una donna straordinariamente giovane parlava al telefono. Mi colpì la coda quasi da asiatica e che fosse appollaiata su uno sgabello a gambe larghe, come avevo visto fare solo nei bar. I pantaloni, che dovevano essere di una stoffa ingrata o molto stretti, si aprivano in un becco sopra le natiche. Un televisore era acceso in un ripiano accanto al frigorifero. La tavola era apparecchiata con due mini tovaglie, forchette e coltelli a punte smussate, tovaglioli di carta e bicchieri panciuti. La donna si era chinata a baciare la mia Migliore Amica e senza smettere di parlare le aveva indicato il piano di sopra dove c’erano le camere e il bagno. Mentre ci lavavamo le mani la mia Migliore Amica lasciò cadere due dosi di sapone sul palmo e disse: “stanno discutendo dall’affidamento”. Poi stappò un tubetto di crema idratante e se la passò sul viso, mise il rossetto e restò forse a lungo come assorta davanti a quella sua testa enorme e pitturata, riflessa allo specchio. Io guardavo i contorni della sua faccia e le cose che non poteva vedere, ad esempio come cadeva dritta e pesante la massa dei capelli, rossa e rapinosa, sulla nuca e le spalle, oppure la curva del corpo, che era una specie di arco svelto e acerbo, o la peluria sul dorso dell’orecchio. Al che lei mi si avvinghiò addosso e prima che avessi potuto staccarmi mi aveva coperto la faccia di rossetto e morsotti e poi si era messa a ridere a un volume spaventoso e poi era corsa in cucina con passo eccitato, dove il pranzo era pronto da un pezzo. Mi stavo facendo attendere e me ne vergognavo. In bagno mi sciacquavo disperatamente la faccia con la coscienza che da allora in avanti sarei sempre stata l’elemento gregario della coppia; da basso arrivava odore di cibo precotto.
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