Nonna mi portava dall’oculista più o meno una volta al mese. Guidava una opel kadett che odorava di sigaretta e moquette e parlava con la voce tipica delle persone che hanno a che fare con gli animali e i bambini. Trattandosi di una visita medica potevo sedermi davanti e allacciare la cintura di sicurezza. Le strade a Viareggio avevano ancora qualcosa degli anni Settanta o per lo meno dell’immagine che me ne sono fatta nel tempo. È difficile parlare di una cittadina di mare amata e brutta. Un qualcosa che aveva a che fare col salmastro, il cemento, il carnevale, la cenere, il pescato, la boxe, le pitture, la cattiveria, la magrezza e un’intelligenza asciutta era parte delle strade, del porto, della pineta e dei palazzi prima ancora che della gente. Per raggiungere lo studio salivamo abbracciate una rampa di scale. Mia nonna parlava ma non ascoltavo. Ecco, avrebbe potuto il medico sbagliarsi, poniamo, iniettare una fiala di collirio con una siringa piuttosto che con il contagocce? E, poniamo di nuovo, se avessi riso. Se avessi riso cosa sarebbe successo? L’oculista aveva qualcosa di mortuario. Mi sedevo sulla poltrona e lasciavo le gambe allargarsi e spenzolare fuori, avevo un fazzoletto di carta e sentivo odore di formalina (tutti gli animali nei musei sono conservati in formalina) o delle altre sostanze nelle quali immaginavo fossero immerse le dentiere, i bastoncini acuminati e gli altri oggetti del dentista. Apri bene l’occhio, diceva, e ovviamente non riuscivo. Così vicino potevo sentire il fiato di adulto e quando finiva la visita il collirio aveva dilatato le pupille del tutto. A sera per le strade c’era chiasso e quasi sempre in via Battisti (via Cesare Battisti, mi domando adesso) c’erano donne strette nei cappotti che facevano la fila davanti al banco. I garzoni portavano i panini in una cesta che tenevano ai lati e prima ancora che avessero potuto rovesciarla nelle cassette i panini erano già finiti nei sacchetti di carta delle prime clienti. Mi avvicinavo alla vetrina con gli occhi ancora sfocati e soprattutto i prezzi, neri, era come se galleggiassero. Erano panini minuscoli con un sapore dolciastro che io mangiavo come premio al termine della visita, se non potevo avere un pezzo di focaccia. Per qualche motivo ho un ricordo legato a quei panini di cui non so spiegarmi l’origine. Nel mio ricordo è un pomeriggio come ce ne sono a maggio o in certi aprili molto fortunati; mamma mi ha mandata a fare la piccola spesa per il pranzo. Ho un sacco pieno di panini e mentre sto lasciando il negozio qualcuno mi saluta; mi volto, si tratta di un signore che non ho mai visto prima. Giorni dopo sto giocando coi giochi di costruzioni e mi scappa la storia dei panini. Mamma smette di stirare e chiede che le racconti tutto da capo. Ero davvero certa di non aver mai visto quel signore? Quanti anni poteva avere? E lo saprei riconoscere? A cena papà parla a bassa voce con mamma, l’arrosto galleggia in un brodo in cui minuscoli occhi di grasso tingono il pomodoro e le verdure di un giallo disgustoso. Poi mi trovo a letto, e sogno lo stesso pomeriggio profumato. L’aria sa di mare e gli alberi hanno una chioma fresca che si confonde col cielo e il marmo della piazza. Entro nel negozio e un signore mi saluta. Al che io rispondo e il signore domanda se voglio seguirlo. Usciamo per mano dal negozio e ci troviamo in una macchina. Vogliamo fare un gioco, domanda? Finalmente, non stavo più nella pelle. Ci penso poi esplodo: nascondino è un gioco bellissimo. Il signore ride, batte le mani sulle ginocchia e dice: certo, nascondino è un gioco bellissimo, ma io ne conosco uno migliore, dice, che si chiama “Destriero”. Al mattino mi sciacquo con l’acqua fredda e noto che ho una pellicola di lucido sugli zigomi e i capelli sono untuosi. Mamma decide di tenermi a casa, del sogno non faccio parola con nessuno.
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