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Un giorno è riabilitata e le viene riaffidato il bambino, ma non è guarita e ricomincia la lotta contro le visioni da cui è afflitta.
L'unico momento in cui non ne ha è quando canta.
Kotoko è il ritorno di Tsukamoto alle sue origini: un dramma sulla difficoltà di essere madre che si trasforma inesorabilmente in un horror allucinato e spiazzante.
Le visioni di Kotoko si mescolano senza soluzione di continuità a quello che sta accadendo veramente e l'effetto che si ottiene è tellurico. La cinepresa che pedina nervosamente la protagonista riesce a restituire tutta l'angoscia di quel momento che non sappiamo se reale o meno.
E anche se tutto quello che abbiamo appena visto è solo una proiezione mentale , un' illusione creata da una psiche implosa, l'effetto è annichilente. Come se tutto fosse realmente avvenuto.
Mentre si guarda Kotoko la memoria corre indietro fino a Gemini per rimanere sempre in casa Tsukamoto e il paragone con Inseparabili di Cronenberg a questo punto non sembra così azzardato.
Due stili e due modi totalmente diversi di intendere cinema ma storie di doppi e di menti deviate raccontate con una capacità di narrare che hanno solo i registi di grande talento.
La regia di Tsukamoto in questo suo ultimo film arriva a vette forse ancora mai toccate dal regista giapponese: perlomeno non nello stesso film. A un montaggio serrato, alla macchina da presa che pedina a pochi centimetri la protagonista inquadrata sempre in campi molto stretti, ai movimenti ubriacanti di macchina all'interno dell'appartamento prigione di Kotoko ( plumbeo e soffocante tranne che nella camera del bambino che è un effluvio di colori vivaci), si alterna quasi la pace dei sensi quando la madre va a visitare Daijiro a casa della sorella in riva al mare.
La felicità di quei momenti diventa quasi palpabile grazie a uno scarto dello stile registico che aumenta la distanza tra cinepresa e protagonisti, aumenta la lunghezza delle sequenze per simulare la serenità che è altrimenti una chimera inarrivabile per Kotoko.
Per poi ritornare al delirio di sangue e di autolesionismo che è il corollario della vita della giovane madre e dello scrittore stalker ( interpretato dallo stesso Tsukamoto che si diverte ad autocitare se stesso e un suo "presunto" romanzo intitolato Bullet Ballet) che fa capolino nella sua vita dopo che le hanno tolto il bambino.
Anzi i tagli che prima la donna si faceva sulle braccia, non per morire, vengono sostituiti dalle sevizie selvagge a cui lo scrittore si sottopone di buon grado in un delirio masochistico.
Ma la psicopatologia di Kotoko rimane lì, intatta e con lei le visioni doppie quando di nuovo rimane da sola a badare al piccolo Daijiro.
Una lotta impari contro una psiche irrimediabilmente devastata.
La contrapposizione tra questi due stili così agli antipodi ottiene il risultato di raccontare ancora più in profondità il dramma di questa giovane madre e di come la sua anima sia lacerata dall'amore verso il figlio e dalla consapevolezza dei pericoli ai quali lo espone continuamente.
Kotoko rappresenta il ritorno di Tsukamoto alle sue tematiche e ossessioni più radicali ma stavolta il suo cinema è forte di una raffinatezza visiva che forse non ha mai avuto.
Incredibile la performance della cantante Cocco, autrice anche del soggetto, che si immola anima e corpo alla causa del film, uno dei più sconvolgenti visti quest'anno.
Il cui orrore nasce dalle pieghe della normalità.
Ed è per questo che sconvolge ancor di più.
( VOTO : 8,5 / 10 )
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