Cosa poter dire di un disco che, a parere del sottoscritto, rappresenta la vera e propria fine di un’ epoca?
Siamo nel 1995 e il death metal sta morendo (non morirà, in verità, ma tutto quello che verrà dopo sarà solo una copia di quanto è già stato). Lies è l’ultimo nato di una gloriosa stirpe che ebbe inizio dopo la fine degli anni ottanta e che fu travolta dal ciclone black metal, salito agli onori della cronaca e delle vendite discografiche dopo i fatti di sangue norvegesi del 1992 e 1993 e con l’exploit commerciale di band come i Cradle of Filth. Dopo quegli avvenimenti il black metal divenne il carrozzone sul quale quasi tutti saltavano. Non i Krabathor.
Dopo due mediocri album come i noiosissimi Only Our Death is Welcome… e Cool Mortification, finalmente una prova di serietà e di brutalità che ancora fa tremare. Il giusto connubio tra il death metal piu’ brutale e i riff che piacciono a noi, quelli della buona vecchia scuola della fine degli ’80 e l’inizio degli anni novanta. Provare pezzi come Imperator (Strikes Again) per credere.
Il merito di aver permesso alla band ceca di fare il salto di qualità fu della tedesca Morbid Records, che pubblicò questo gioiello che a tutt’oggi, checché ne dicano gli amici polacchi, rimane il più bel disco di metal estremo mai pubblicato nell’Est Europa. Un rivale potrebbe forse essere quell’Ultimate Incantation a nome Vader che è ormai mitologia e che ancora oggi, a ventidue anni di distanza, e proprio come l’album di cui si parla qua, piscia in testa a qualsiasi release brutal death odierna. Meriterebbe anch’esso un capitolo a parte.
Lies è il miglior disco possibile che inizia nella maniera migliore possibile. Rumori indistinti seguiti da una voce, che con calma e fermezza dichiara: FUCK THE CHRIST. E la lira s’impenna. Quello che segue è incredibile brutalità abbinata a una tecnica che fa paura.
Un massacro calcolato in maniera chirurgica e spietata. The Truth About Lies spezza in due la spina dorsale a mazzate in nemmeno tre minuti. Segue Unnecessarity. Stessa durata e un intermezzo di chitarra che ricorda i Megadeth di Rust in Peace. Pezzo mostruoso. E si resta su livelli altissimi con Short Report on the Ritual Carnage. Inno animalista o no? Tra rumori di mattatoio e operatori di abattoir fischiettanti, una voce nel finale chiede: “who’s the animal?” Secondo me le bestie son loro. Basta ascoltare il drumming forsennato di Petr “Pegas” Hlaváč per rendersene conto.
Tears, Hope and Hate riprende con riff assassini e un bel chorus. E qua la struttura dei pezzi si allunga e il songwriting si fa piu’ complesso. Rebirth of Blasphemy e’ l’inno della Domenica delle Palme:
Bless the cross – bless the pope
Bless your tricks – bless my dick!
E la successiva e già citata Imperator è difficile da dimenticare col suo incedere minaccioso e leggermente più groovy rispetto al resto dei pezzi contenuti nell’album. Manca un altro calcio nelle palle come Stonedream prima della bellissima e sognante Believe..., un pezzo strumentale ispiratissimo dove i nostri giocano con stupende melodie che ci dimostrano che i cechi hanno decisamente una marcia in piu’ rispetto al piattume abituale del brutal death fine a sé stesso.
Insomma, un discone della madonna che chi di voi lettori non abbia mai avuto l’opportunita’ di sentire (male!) dovrebbe recuperare immediatamente e sparare a tutto volume aspettandosi il vero suono dell’apocalisse.
Quando ero un adolescente e frequentavo P.zza Della Repubblica, ovvero il covo dei metallari senzaddio di Cagliari, ricordo un tizio suonato con cui scambiavo nastri di brutal e death che sosteneva di essere cugino di uno dei Krabathor. Noi ovviamente lo perculavamo perche’ il tizio era fuori come un balcone. Chissa’ che non fosse vero pero’. Ahoj! (Piero Tola)