Quattordici capitoli come le quattordici stazioni della Via Crucis. E ogni capitolo di Kreuzweg – Le stazioni della fede è un unico piano-sequenza (per di più quasi tutti a macchina fissa), come uno sguardo puntato ed estasiato dalla vista di un santo.
Di film sulle esagerazioni e le storture della religione ne ricordiamo vari, tra cui Lourdes di Jessica Hausner (2009) e Paradise: Faith (2012) di Ulrich Seidl. Kreuzweg – Le stazioni della fede di Dietrich Bruggemann, Orso d’Argento per la Migliore Sceneggiatura e Premio della Giuria Ecumenica al 64esimo Festival di Berlino, è un film sugli esiti del fondamentalismo religioso. Quel radicalismo religioso che spesso siamo portati ad associare all’Islam, stavolta è in casa nostra, in Europa, nella cattolicissima Germania meridionale.
Protagonista è Maria, quattordici anni (numero che si ripete come un numero sacro), appartenente ad un sottogruppo cattolico che vive la religione secondo la fede tradizionale. Ma questo, nella società moderna, va incontro a grosse difficoltà. Sua madre e il parroco, Padre Weber, le hanno insegnato che il peccato si cela ovunque, anche nella musica e nel canto, proprio in quella musica e in quel canto che secondo Sant’Agostino sono sinonimo di pregare due volte. Questo radicalismo le si insinua nel cuore e nella mente come un cancro, un tumore maligno che la consuma fino a convincerla a sacrificare la propria vita a Dio. La sua vita per sciogliere la lingua del fratellino, che a cinque anni ancora non parla.
Kreuzweg – Le stazioni della fede è un film potentissimo, che cattura, inquieta, quasi manda in trance anche lo spettatore. Un film di parole, dove il verbo si fa film, da seguire con un’attenzione radicale e radicalizzata. Kreuzweg – Le stazioni della fede inanella come un rosario in crescendo una serie di estratti di vita sui disastri dell’eccesso in una messinscena per difetto. Il processo di sottrazione nel filmico è così profondo che negli ultimi episodi, quando la mdp, fino a quel momento fissa e inamovibile, si muove e si alza per seguire i fedeli verso l’altare, lo spettatore subisce un piccolo grande shock: la minima “infrazione” ci appare enorme. Ed è lì che il regista riesce a trasformare in linguaggio cinematografico lo spauracchio del “peccato” vissuto dai protagonisti.
Kreuzweg – Le stazioni della fede è un film dove il “credere” che fonda ogni religione e ideologia genera uomini-mostri, i quali, convinti di intraprendere la più retta delle vie, in realtà la smarriscono irrimediabilmente fino a toccare l’esatto opposto della fede più sentita.
Ma non solo. Kreuzweg – Le stazioni della fede ci interroga anche su come nasce un santo, su chi può essere considerato tale e chi no. È santo colui che sacrifica la propria vita anche se Dio non gliel’ha chiesto? È santo chi, pensando di fare il volere di Dio, in realtà sta solo facendo il proprio, verso una liberazione che non è salvezza? Ecco quindi che il fondamentalismo, invece di innalzare, conduce al peccato, la fede non libera ma incatena, succubi di un Dio che non è più Padre ma Padre padrone.
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