KULTURA: Attila József, il mendicante di bellezza

Creato il 10 maggio 2012 da Eastjournal @EaSTJournal

di Claudia Leporatti

Un poeta che non smetterà mai di essere attuale, Attila József, è stato protagonista di una serata di poesia nella cornice della Palazzina Liberty di Milano, allestita per presentare il volume “Il mendicante di bellezza”, una raccolta delle prime opere dell’autore ungherese, scritte tra i 16 e i 20 anni, tradotte in italiano da Tomaso Kemeny e uscita nel 2008 per i tipi Il Faggio. Un volume sottile, ma denso di arte a vari livelli: sette poesie in lingua originale affiancate da altrettante incantevoli traduzioni e inframezzate da dipinti di pittori ungheresi della prima metà del Novecento. Lettore d’eccezione per i versi di József (nella loro traduzione in italiano) è stato l’attore di teatro Franco San Germano. Il professor Kemeny, che pure con la poesia di Attila ha un rapporto pressoché continuo, non può leggerli: “mi commuovo ogni volta”, anticipa. Alla serata nel prestigioso spazio eventi in Largo Marinai d’Italia ha preso parte anche il Console Generale di Ungheria in Italia, Manno István.

“Il mondo era troppo piccolo per il suo cuore”

Organizzato dall’associazione culturale Casa della Poesia, l’appuntamento si è trasformato in un’esperienza di profonda intimità con il grande intellettuale morto suicida 75 anni fa. La carrellata di poesie scelte per essere condivise con la platea è risultata fluida, sapientemente insieme da un filo logico consequenziale. Una passeggiata, una riflessione.
Una vita breve e segnata dalla fame, quella di Attila, che alla sua indigenza e al vuoto dello stomaco ha dedicato versi stupendi. Quelli di seguito, tratti da “Vorrei essere un melo selvatico” (“Szeretném, ha vadalmafa lennék!”, 1921) sono emblematici della generosità del poeta, che non trascurava di pensare agli altri, nonostante fosse lui stesso uno sfortunato:

Vorrei essere un melo selvatico,
un ramificato melo selvatico;
e così ogni bambino affamato
coperto dalle mie ombre
si sazierebbe del mio corpo.

I suoi versi “hanno il sapore del pane – disse di lui Benedetto Croce – ma, nello stesso tempo, la capacità di mutare il mondo”. József fu un poeta politico: dopo due anni di viaggio tra Parigi e Vienna, ventenne, entrò infatti nel movimento socialista ungherese e si iscrisse al partito comunista clandestino, salvo poi esserne cacciato perché troppo antiformista. Sul socialismo si pronunciò, inoltre, in diversi dei suoi saggi, tra cui “Letteratura e socialismo” (“Irodalom és szocializmus”), steso per una conferenza e pubblicato postumo nel 1957. Infine, Jószef fu un uomo innamorato. Nella sua vita non ci furono storie lunghe, ma nemmeno mancarono i grandi amori, tuttavia impossibili. Dopo che gli fu diagnosticata la schizofrenia, il poeta s’invaghì della psicanalista Edit Gyömröin, che anche volendo non avrebbe potuto legarsi ad un paziente. Senza speranza pure l’amore per Flóra Kozmutza, nota dottoressa morta nel 1995 che per di più era sposata, destinataria delle ultime lettere di József.
Nove mesi di rapporto epistolare pressoché unilaterale, che sollevò molte voci. Era il 1937: il 5 dicembre di quello stesso anno József Attila fu travolto da un treno mentre faceva una passeggiata nei pressi della casa di sua sorella, a Balatonszárszó, dove si era trasferito per qualche tempo.

Ci sarebbe quasi da trarre un libro da queste due ore di convivialità. Concluse con un brindisi: un assaggio di vino ungherese per tutti.

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