Templi, boschi, onsen, cucina buddista: ecco perché nell’antica capitale bisognerebbe restare qualche giorno per esplorarne i dintorni.
Scendo dal treno e mi ritrovo improvvisamente solo. Ci sono una striscia di asfalto, due segnali per me quasi illeggibili e boschi a perdita d’occhio. I pochi giapponesi che sono scesi alla stazione di Kibuneguchi si sono subito affrettati a prendere il bus che li aspettava col motore acceso, mentre io voglio salire a piedi fino al paese, percorrendo questa stretta valle fra le montagne a nord di Kyoto. Sono quelle montagne che a Kyoto si vedono di continuo appena si sale un po’ o si apre l’orizzonte fra i palazzi nelle zone meno densamente abitate. Oppure mentre si attraversa il Kamogawa e dal ponte di Shijo si guarda verso nord. O ancora mentre ci si sposta nella zona di Higashiyama, che è proprio a ridosso di alture e che, in effetti, ha un nome che significa ‘monti orientali’. Quando penso a Kyoto non penso subito ai templi, alle maiko, ai giardini, alle vecchie machiya. Io penso prima allo scorrere del fiume e alle montagne lontane.
Il Kamogawa, le montagne dal centro di Kyoto (foto di Patrick Colgan, 2015)
Kibune
Sono i pensieri che mi si affastellano nella mente mentre osservo il bus che mi parte sotto il naso e soffoco la tentazione di bloccarlo e salire. Sono venuto per percorrere il sentiero fra Kibune e Kurama, una dozzina di chilometri a nord della città. E’ un’escursione semplice, amata e popolare, in particolare d’estate. E’ indicata anche sulla Lonely Planet, alla fine del lungo capitolo su Kyoto, non scopro nulla. Turisti però non ce ne sono anche perché tanti si fermano a Kyoto solo un paio di giorni pieni, a stento sufficienti per vedere i luoghi più famosi. Se d’estate si fa il percorso da Kurama a Kibune, dove vengono allestiti piacevoli ristoranti sul fiume, nella stagione fredda è meglio il percorso inverso, concludendo l’escursione con un bagno termale all’aperto, capace di scacciare il gelo dalle ossa e far dimenticare la fatica.
La strada sale lentamente verso Kibune fra alberi enormi, affiancata da un torrente. Avvicinandosi al paese la valle si stringe e lungo il corso d’acqua si susseguono splendidi ryokan e ristoranti, ma tutto sembra chiuso. E’ un posto però, penso, dove resterei una settimana. A scrivere, leggere, camminare. Mentre immagino come sarebbe questa vacanza, fra le case appare il portale rosso di un tempio: è il Kifune-jinja che si raggiunge salendo una rampa di scale incorniciate da una spruzzata di neve.
La strada per Kibune (foto di Patrick Colgan, 2015)
Kibune (foto di Patrick Colgan, 2015)
Kifune-jinja (foto di Patrick Colgan, 2015)
Kifune-jinja (foto di Patrick Colgan, 2015)
Il tempio non è nulla di speciale, forse. Anzi, c’è anche una brutta statua di plastica che rappresenta due cavalli e ricorda la tradizione che in antichità prevedeva che un cavallo nero fosse offerto se serviva la pioggia, uno bianco se serviva un tempo secco.
Ma guardo altrove. Qui è bello sentirsi soli e ascoltare l’acqua, alla cui distribuzione presiede lo spirito che viene venerato. Ascolto il rumore del torrente, molto più in basso. Si fonde con quello di una fonte, vicinissima; un suono basso e un suono alto, con ritmi diversi. Qui assieme a me c’è solo una ragazza. Secondo la tradizione del santuario bagna all’acqua della fonte il suo omikuji il biglietto che rivela le proprie fortune (o sfortune). La guardo con curiosità, osservo i gesti, divento anche invadente con i miei occhi, cercando di capire se il responso è positivo o meno, se annoderà il pezzetto di carta a una fune per chiedere di esser graziata. Lei si gira e mi nota, provo vergogna. Allontano lo sguardo rapidamente e resto sorpreso da un cartello: il santuario è su facebook, youtube e ha anche il wi-fi. Non resisto alla tentazione, estraggo lo smartphone e mi collego. Modernità e tradizione in contrasto stridente. Non è un luogo comune: è tipicamente giapponese.
Sul monte Kurama
Pago 300 yen e mi inerpico sul sentiero a scalette che si snoda sul monte verso un grande complesso di templi buddisti, il Kurama dera. E’ un luogo sacro e pieno di storia, citato forse – indirettamente – negli antichi testi del Genji Monogatari e dell’Heike Monogatari. E la venerazione in questi posti è decisamente singolare: è rivolta a Mao-Son – racconta il depliant in inglese -, spirito sceso milioni di anni fa dal pianeta Venere. Forse, si ipotizza, questa e altre leggende che parlano di navi di roccia adombrano la caduta di un meteorite nella zona. Dopo circa venti minuti, una volta giunti sul crinale, il sentiero si addolcisce e cominciano a comparire i primi templi nascosti fra gli alberi. Più che gli spogli edifici sono le piante antiche ed enormi, a volte inghirlandate, recintate, venerate, ad attirarmi. Sono a noi vicinissime, vivono quasi in simbiosi con l’uomo eppure è impossibile non percepire qualcosa di ultraterreno, di superiore, nella loro grandezza, nella loro capacità di superare il tempo comprensibile agli esseri umani. E’ un senso di sacralità, quello ispirato dagli alberi, che varca i confini, forse innato nell’uomo. Penso all’albero sotto il quale il Buddha ricevette l’illuminazione e poi ai miei appennini, vicino a Bologna, a luoghi che portano nomi come Madonna del Faggio, Madonna dell’Acero.
Il sentiero sul monte Kurama (foto di Patrick Colgan, 2015)
Monte Kurama (foto di Patrick Colgan, 2015)
Monte Kurama (foto di Patrick Colgan, 2015)
Il Kurama Dera
Con la sua struttura imponente il tempio principale appare quasi fuori posto e non mi emoziona. Qui improvvisamente, poi, compaiono tante persone. Sono arrivate, scopro, con una funicolare che si può prendere da Kurama, nella valle opposta dalla quale sono partito. Ci sono anche ragazze in tacchi alti, minigonna e maschera da chirurgo, come in un centro commerciale, che gettano una moneta e si raccolgono in preghiera. C’è però qualcosa di arcaico e misterioso nel tempio, che risale originariamente all’ottavo secolo. E’ il luogo penso. E la strada che ho fatto per arrivare fino qui: me la sono portata dietro e il bosco è ancora nella mia testa. Difficile non percepire la presenza di un altro mondo fra questi monti. Resto seduto a lungo ad ascoltare i monaci e a guardare i semplici, ripetitivi gesti delle persone in preghiera.
Kurama-dera (foto di Patrick Colgan, 2015)
Uno degli edifici più piccoli del Kurama-dera (foto di Patrick Colgan, 2015)
Il panorama dal monte Kurama, clicca per ingrandire (foto di Patrick Colgan, 2015)
Kurama, onsen e cucina buddista
Arrivati alla base del sentiero, sulla sinistra, c’è una piccola casupola con insegne in ideogrammi. E’ Yoshuji, un ristorante specializzato in cucina vegetariana buddista (shojin ryori) non sempre facile da trovare (è tipica per esempio al monte Koya). Chi vuole restare su un semplice spuntino può cavarsela con una scodella di soba, tagliolini di grano saraceno. Ma io scelgo il pranzo completo, meraviglioso a partire dall’aspetto, curatissimo: quella visiva è una parte fondamentale dell’esperienza.
Shojin-ryori a Kurama (foto di Patrick Colgan, 2015)
Shojin Ryori a Kurama (foto di Patrick Colgan, 2015)
La conclusione è all’onsen, la struttura termale collegata con la stazione da una navetta gratuita ogni 20 minuti, anche se in realtà basta un quarto d’ora a piedi per arrivare. C’è un biglietto da 2.000 yen per la vasca all’interno, da 1.100 per quella all’esterno (400 yen il noleggio del telo). La scelta è quasi obbligata: immergersi nell’acqua bollente fra gli alberi, i monti, la neve è una delle esperienze più belle che si possono fare in Giappone. I sessi naturalmente sono separati, tollerati i tatuaggi (quando non enormi), a volte vietati nelle terme giapponesi. Mi torna alla mente il primo viaggio, l’escursione a Ohara, il primo bagno fra le stesse montagne che mi circondano ora. L’acqua qui non è troppo calda – a volte arriva a 42 gradi – e questo permette di restare immersi molto a lungo, godersi il panorama mentre i muscoli si rilassano. E di perdersi con lo sguardo nelle nuvole di vapore che si confondono col cielo.
L’ingresso dell’onsen all’aperto (rotenburo) di Kurama Si vedono i vapori della vasca (foto di Patrick Colgan, 2015)
Come arrivare
Il percorso fra Kibune e Kurama è sull’ottimo sito (in inglese) Inside Kyoto. Dalla città si prende la metro per Demachinayagi dove si cambia col treno per Kurama (circa 20 più 20 minuti, il secondo biglietto costa 420 yen). Per fare il percorso da Kibune si scende a Kibuneguchi e usciti dalla stazione si prende la navetta o ci si incammina in salita verso destra. Il tempio e il sentiero sono bene indicati. Da Kurama si scende al capolinea.
Al ritorno Demachinayagi merita una sosta. E’ una zona di Kyoto piacevole dove fare due passi lungo il fiume e magari visitare lo Shimogamo jinja, un santuario molto antico. Poi, dal ponte, si può rivolgere di nuovo lo sguardo ai monti lontani. E salutarli.
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