Ponson du Terrail, autore di quel delizioso e interminabile feuilletton che è “Rocambole”, pare tenesse sul tavolo dove scriveva delle silouettes dei personaggi della saga, mettendo nel cassetto quelli che aveva fatto morire, giusto per non dimenticarsene e non farli ricomparire nell’intrigo dei colpi di scena senza dare una spiegazione plausibile (si fa per dire) della loro resurrezione.
Per alcuni di essi, i cattivi in particolare, la morte e la resurrezione sono praticamente la regola che si ripete per tutti i tomi dell’opera.
Mi è venuta in mente quest’immagine alla notizia del ritiro del Minore dei Mali dall’agone elettorale (forse sarebbe meglio cominciare a chiamarla “agonia elettorale”).
Un cassetto socchiuso in cui far entrare con gesto stanco quella corta figurina nera in attesa di trovare la “spiegazione plausibile” per la prossima resurrezione.
Perché neppure dopo la sua morte e l’inumazione in quel rifugio antiatomico che lui chiama mausoleo (e, d’altra parte, Romolo Mausolo sembra il nome di un nano di Disney), crederemo che non risalti fuori da un angolino facendo cucù ai presenti in lacrime (di coccodrilli è pieno il mondo) e raccontandoci una barzelletta sconveniente sull’aldilà.
Quindi, in attesa di rivedere una manina che fa le corna dietro la testa di qualche autorità, sui media grandi e piccoli si fanno resoconti e bilanci sul ventennio trascorso.
A me ne vengono solamente due da fare: quanto ci è costato economicamente e, soprattutto, quanto ci costerà culturalmente uscirne.
Economicamente è impossibile fare il conto dei danni procurati: nel ’93 aveva 5.000 miliardi di lire di debiti suoi e quasi altrettanti delle aziende a lui collegate, oggi Forbes stima il suo capitale personale in cinque miliardi di Euro e si sono perse le tracce dei mille rivoli e rivoletti delle sue partecipazioni, più o meno esplicite e più o meno lecite.
Ma non finisce qui il danno che ha prodotto: il sistema di corruttele, naturalmente ben presente da sempre, è stato “sdoganato” dal cavaliere con macchia e paura e reso palese e sfacciato.
E l’impunità che ha sempre cercato per sé ha dato la sensazione di copertura anche ai suoi imitatori più fedeli, cui la magistratura ha dato con fatica caccia e condanne, quando possibile.
Il costo monetario di questa “prassi” malversante non riusciremo forse mai a calcolarlo, di certo continueremo a pagarlo per generazioni, anche perché non si è affatto affievolita.
Ma il morbo che ha allevato e diffuso a piene mani dai suoi mezzi di comunicazione prima e col suo esempio e la sua “politica” poi è il degrado culturale di generazioni di italiani che sono vissuti, molti nati e cresciuti, avvolti in questa zuccherosa nebbia di facili scorciatoie al posto di impegnativi studi, di monetizzazione generale invece di principi fondamentali, di evasioni ed elusioni invece di regole e rispetto.
Per carità non l’ha mica inventata lui la televisione “nazionalpopolare”, Pippo Baudo ne fu un caposaldo ben prima, ma lui ne trasse il peggio e, soprattutto, eliminò gradualmente ogni alternativa.
E ad essa unì indissolubilmente iniziative commerciali, editoriali, edilizie e politiche fino a farla diventare un costume diffuso e onnipresente.
Con la contemporanea demolizione del patrimonio culturale precedentemente costruito con fatica nei decenni, con l’offuscamento dei riferimenti e l’abbandono dei luoghi simbolici.
L’irrisione dei diritti e dei doveri, l’apparenza ingannevole, la furbizia anche stupida, ma redditizia sono rapidamente diventate le nuove colonne su cui sono cresciuti gli italiani di questo ventennio.
Non tutti, ovviamente e fortunatamente, ma un numero assai cospicuo sì, che gli ha permesso di restare in sella fino ad ora.
Con la sua discesa dalla sella e la sua risalita dal campo (a crederci) si lascia alle spalle una Waste Land come neppure Attila se la sarebbe immaginata.
Se mai smetteremo di essere una moltitudine e diventeremo un Popolo e finalmente impareremo a conservare una memoria corretta della storia che ci ha lambiti o travolti, potremmo dire che di “uomini della provvidenza” non ne vogliamo più.
Se mai…
Nel frattempo, non credendo all’uscita di scena del Piccolo di Milano, mi preparo alla sua dipartita finale con un tributo sentito da portare sul suo sarcofago.
Un piccolo fiore.
Di plastica.