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L’accademia dei morti viventi. Parte seconda: il fantasma dell’autore

Creato il 30 gennaio 2012 da Btfp @btfp1

[Segue da Parte prima: la revisione paritaria]

La peer to peer review della prima parte del testo di K. Fitzpatrick può funzionare solo se l’interesse principale del ricercatore è l‘avanzamento della comunità di conoscenza, prima che del suo proprio. Solo se l’autore si mette in discussione non tanto nella teoria, ma in primo luogo nella pratica.

L’architettura della rete favorisce la condivisione e l’interconnessione dell’informazione piuttosto che la proprietà individuale dei testi. La nuova tecnologia si è radicata, come a suo tempo la stampa, e ha provocato un dibattito, assai simile a quello della fine del XVIII secolo, sul senso e sulla metamorfosi della comunità intellettuale. 

L’individualità dell’autore non è, di per sé, un esito necessario della stampa. Perfino la capostipite delle riviste scientifiche, le Philosophical Transactions of the Royal Society, nacque come una silloge compilata da un curatore, Henry Oldenburg. La stampa, in ogni caso, si prestava a costruire  una relazione isomorfica fra autore e libro. E ad essa si collegarono dei processi sociali che condussero alla nascita dell’autore, in una cultura che si orientava secondo l’ideale di un individuo autonomo, creatore e governatore di se stesso, proprietario. Lo scrittore, però,  non ha mai operato nel vuoto: è sempre stato parte di una conversazione più ampia, che ora la rete rende più estesa e più facile. Gli umanisti, in realtà, non temono la perdita della comunità, che continua in rete con altri mezzi, bensì quella dell’individualità.

Nella teoria, da Barthes in poi, l’autore pare defunto almeno dagli anni ’60 del secolo scorso: ridurre il testo al lavoro di un individuo, alle sue intenzioni e ai suoi interessi, significa chiudere il suo significato e negare la vita spirituale del lettore. Ma quanto è ormai quasi banale per noi come critici culturali, lo è anche per noi come scrittori? Se l’autore è felicemente deceduto, perché continuiamo a valutare le carriere accademiche sulla base del suo fantasma? Secondo Foucault, sebbene l’autore si riduca a una funzione del testo, rimane intatta la rete di potere che produce autorità. L’ipertestualità, che decentra l’autore, frammenta il testo e attiva il lettore, è stata salutata come una manifestazione digitale delle teorie post-strutturaliste: ma nei fatti restiamo a metà strada, né vivi né morti, in un mondo di media orrnai post-accademici – o. forse, accademici, ma nel senso più antico e più filosofico del termine.

Il blog, primo genere letterario digitale di successo, ha la possibilità di inserire commenti e link e di produrre nuove versioni di un post già reso pubblico – cosa sconcertante, in un mondo abituato a licenziare i libri per le stampe e a vedere nella loro immutabilità un segno di autorità.

Il testo licenziato per le stampe si presta a essere trattato come un prodotto, in una metafora fordista, che alla fine induce a contare le pubblicazioni o le citazioni in luogo di giudicarne la qualità. La scrittura non è più un processo di scoperta, esplorazione e comunicazione, ma un’accumulazione di prodotti, che possono essere computati solo quando sono finiti. Un blog, di contro, trascende la rigidità testuale, perché trova lettori solo se viene aggiornato, cioè cambia – in un presente continuo che prima della rete era possibile solo per il discorso orale. Questo tipo di scrittura – che è lo scrivere nell’anima del Fedro – sposta il nostro lavoro dal prodotto al processo, e dal singolo alla comunità.

Mentre la stampa rendeva i testi discreti e separati nel tempo e nello spazio, e dilazionava la loro interconnessione, la rete sfuma le frontiere dei testi, e mette in imbarazzo gli umanisti, abituati a un individualismo feroce sia nella produzione sia nella valutazione della ricerca, e conseguentemente terrorizzati dalla possibilità che le loro preziose idee vengano “rubate” prima che l’editore vi apponga un marchio di denominazione di origine controllata. In realtà, inserire il testo come oggetto in evoluzione entro una conversazione in rete gli offre una pubblicità che lo protegge dalla copia, e arricchisce il testo stesso, aprendolo alla vita, senza negare necessariamente il lavoro di chi lo ha scritto.

Ma come possono i nostri testi rimanere unici, discreti, originali, in un ambiente in cui perfino la lettura di una pagina web richiede un’operazione di copia? Il concetto di autore moderno riposa sul presupposto che il suo testo sia finito, compiuto, perfectum e originale, come so fosse stato partorito armato dalla sua mente. Tutto ciò che è preso da altri testi, se non è chiaramente delimitato, è un plagio. Ci sono però state epoche in cui la cultura progrediva per piccole addizioni, e si preferiva la compilazione e il commentario all’opera “originale”, insostenibile perché idiosincratica.  Quando le barriere si affievoliscono e i testi diventano aperti, come nel Medioevo, il valore aggiunto di un nuovo contributo si trasferisce nella creatività combinatoria dei curatori. Dobbiamo soltanto imparare di nuovo ad apprezzarlo e a ritrovarlo  nei libri tradizionali, traendo profitto dalla multimodalità offerta dalle tecnologie digitali.

Un simile spostamento mette in discussione anche la cosiddetta “proprietà” intellettuale.  La costituzione americana giustifica questo istituto come incentivo per la creatività degli autori; nel corso del XX secolo, però, è stata usata prevalentemente dalle aziende di mediazione editoriale, che oggi non possono più giustificare il loro ruolo con i costi di produzione dell’età della stampa. I ricercatori, in particolare, abituati ad essere compensati con posizioni accademiche, sono nella posizione più appropriata per capire che possono guadagnare di più liberando i loro testi che lasciandoli chiudere in recinti editoriali. La “proprietà” intellettuale – come mostra il successo delle licenze Creative Commons -  non è la condizione indispensabile per il riconoscimento del lavoro delle scrittore: gli umanisti avrebbero tutto l’interesse a trattare se stessi come un pubblico ricorsivo, che assume la responsabilità delle condizioni della sua propria sopravvivenza.

“Dobbiamo pensare meno ai prodotti completi e più ai testi in elaborazione; meno all’autorità individuale e più alla collaborazione; meno all’originalità e più al remix; meno alla proprietà e più alla condivisione.”


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