La Pfizer ha raddoppiato la dose consigliata di una medicina anti-demenza per non perdere il brevetto e i relativi profitti
La Pfizer ha raddoppiato la dose consigliata di una medicina anti-demenza per non perdere il brevetto e i relativi profitti. Il tutto con l'avallo dell'Agenzia del farmaco Usa, nonostante gli effetti collaterali e i dubbi di molti neurologi
Nella roulette del casinò targato Big Pharma puntare sul numero 23 ha fruttato davvero un bel tesoretto alla Pfizer e alla Eisai. Non che i due colossi farmaceutici (statunitense il primo, giapponese il secondo) avessero disperato bisogno di denaro: Pfizer è la più grande società al mondo nella ricerca e produzione di farmaci, con i suoi 58 miliardi di dollari di fatturato (tanto per capirci: 13 miliardi in più del Pil della Tunisia). Ed Eisai si colloca comunque tra le prime 25 aziende del settore. Ma pecunia non olet e il motto vale ovunque.
Per cui, quando il brevetto di uno dei loro prodotti più redditizi stava per scadere, le due ditte hanno pensato a come tenere alla larga la concorrenza dei produttori di medicine generiche per qualche altro anno. Una soluzione a nove zeri (di fatturato), ottenuta però sulla pelle dei pazienti e minando la credibilità del sistema di controllo e prescrizione dei farmaci.
Una pillola campione d'incassi
La vicenda è questa. Ed è stata denunciata nelle settimane scorse dal prestigioso British Medical Journal. Il Donepezil (prodotto da Eisai e commercializzato da Pfizer con il nome di Aricept) è un autentico leader tra i trattamenti della demenza causata dall'Alzheimer: due miliardi di dollari di vendite, ogni anno e solo negli Stati Uniti. Dose raccomandata: 10 milligrammi. Almeno fino a quando il brevetto miliardario non è giunto quasi al capolinea. Un pericolo da scampare come la peste per i proprietari della molecola, terrorizzati dal crollo del prezzo del prodotto e dei margini di guadagno.
A quattro mesi dalla scadenza l'ideona: convincere la Food and Drug administration (l'agenzia del farmaco statunitense) ad approvare un nuovo (e curioso) dosaggio: 23 milligrammi. Tredici in più del precedente. Un numero primo, ma non un numero a caso: ventitré è, infatti, una quantità impossibile da ottenere ingerendo due pillole da dieci milligrammi o quattro da cinque. In questo modo il brevetto sarebbe stato salvo per altri tre anni.
La diga inesistente della Fda
Rimaneva da convincere la Food and Drug administration dell'effettiva utilità di raddoppiare il dosaggio consgliato. Una missione impossibile, almeno stando ai grafici della stessa Pfizer.
«L'impatto sulle funzioni globali è chiaramente identico tra i due dosaggi», spiega Guido Rodriguez, professore ordinario di Neurofisiopatologia all'università di Genova e uno dei massimi esperti italiani di Alzheimer. «Anche i vantaggi a livello cognitivo sono minimi, tanto che per misurarli è stata usata una scala che analizza condizioni già molto compromesse. Probabilmente era l'unica che mostrava una qualche differenza». Eppure dalla Fda il disco verde è arrivato.
La motivazione dice tutto: «Anche se lo studio non lo dimostra direttamente – scrive Russell Katz, direttore della divisione di neurologia della Fda – secondo me è forte la sensazione che il dosaggio da 23 mg ha molto probabilmente un effetto sul funzionamento complessivo. Credo che lo sponsor abbia dimostrato che il dosaggio di Aricept 23 è efficace. Pertanto approverò la commercializzazione».
Un via libera che giustifica sospetti. Tanto più che la Fda ha accettato anche un foglietto illustrativo secondo il quale il nuovo dosaggio avrebbe vantaggi “in entrambe le misure effettuate”. Un'affermazione palesemente falsa. Ma ci sono voluti diciotto mesi per modificarla. Nel frattempo il nuovo Aricept 23, grazie a una sapiente campagna informativa verso medici e pazienti, ha preso il largo: negli Usa viene rimborsato sia dallo Stato, sia dalle assicurazioni private e nei primi sei mesi di vendite ha fatto segnare 68 mila prescrizioni. Un boom ottenuto nonostante effetti collaterali tutt'altro che secondari: «L'Aricept porta con sé una selva di drammatici disturbi, che crescono all'aumentare della dose», denuncia Rodriguez. «Sono le analisi della stessa Pfizer ad ammetterlo»: quadruplicati i pazienti che segnalano nausea, triplicati i casi di vomito, raddoppiati quelli di diarrea e anoressia.
Farmaci anti-Alzheimer: «Soldi sprecati»
Ma non è solo la questione di dosaggio a suscitare lo sconcerto di molti esperti. Sotto accusa è più in generale l'uso della categoria di medicinali di cui il Donepezil fa parte. «Abbiamo sperato che fossero utili a migliorare la qualità di vita dei malati d'Alzheimer, ma abbiamo poi scoperto che i farmaci anticolinesterasici non servono quasi a nulla», confessa Rodriguez. «Sono utili solo al 50% delle persone affette da demenza e la ricerca ha dimostrato che il loro effetto è limitato a 6-8 mesi. Dopo, la malattia continua a progredire. Illudere i pazienti e i familiari è immorale».
Ed è anche un problema di costi. In Italia gli anticolinesterasici vengono somministrati gratis dalle unità di valutazione Alzheimer. «Ci sono poi neurologi senza scrupoli che non inviano i propri pazienti ai centri pubblici per non perdere le loro laute parcelle. Prescrivono loro stessi i farmaci che diventano un vero salasso per le famiglie».
30-40 mila euro è la cifra spesa in media per un familiare affetto da Alzheimer. «È il momento di chiederci se non sia meglio dare ai parenti dei malati i milioni spesi in medicine inutili», osserva Rodriguez. Un dubbio che si sono posti i vertici del Nice (National Institute for Health and Clinical Excellence), l'omologo britannico della Fda. L'agenzia inglese già da anni ha limitato l'uso degli anticolinesterasici a un piccolo numero di pazienti, raccomandando di non prescriverli ai malati con forme moderate di Alzheimer. Troppo basso il rapporto costi-benefici. Scelta mantenuta nonostante le enormi proteste delle associazioni di pazienti, sostenute da oltre cento parlamentari. «In Italia accadrebbe la stessa cosa», osserva Rodriguez. «Colpa di una mancanza di cultura medica e della cattiva informazione. Quando in un articolo si danno notizie scorrette, si alimentano false speranze. I media dovrebbero avere più coraggio. Solo così possiamo sperare di sconfiggere le lobby».
IL SENATO USA ACCUSA: 210 MILIONI PER ORIENTARE 13 ARTICOLI SCIENTIFICI
L'atto d'accusa fa tremare i polsi: aver orientato e manipolato il contenuto di tredici articoli scientifici. Prezzo per il lavoro: 210 milioni di dollari in diritti e compensi, accreditati sui conti correnti di esperti e consulenti. A puntare il dito è il Senato degli Stati Uniti d'America, che in un suo rapporto ha messo sotto inchiesta la Medtronic, un'azienda specializzata in apparecchiature medicali.
Oggetto dell'indagine è una proteina (nome in codice: InFuse) pensata per stimolare la crescita delle ossa e approvata undici anni fa dalla Food and Drug Administration per fondere le vertebre in caso di mal di schiena non trattabile altrimenti.
Secondo il dossier del Senato Usa, i medici avrebbero occultato gli effetti secondari dannosi dell'InFuse, enfatizzandone in modo eccessivo i benefici. Inoltre avrebbero redatto il rapporto usato poi dalla Fda per dare il via libera al prodotto concordandone i contenuti direttamente con Medtronic.
Dal canto suo, la ditta nega ogni addebito. I medici, tutti affiliati a prestigiose università americane, anche.
Ma, almeno negli Usa, il fatto che, nel redigere i loro rapporti, i medici avessero celato i legami con l'industria e i vari conflitti d'interesse è già di per sé un atto d'accusa. Tanto più che l'introduzione dell'InFuse non è stata senza conseguenze per la salute dei pazienti: alcuni sono deceduti, molti altri hanno sofferto di infiammazioni o segnalato problemi neurologici e indebolimento delle ossa. Effetti secondari che sia la ditta sia i medici coinvolti conoscevano. Ma che, nelle loro pubblicazioni, erano tutti accuratamente celati.