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Due candidati verso il ballottaggio
Il 5 aprile 2014 gli afghani sono ufficialmente andati al voto per eleggere il prossimo presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan: l’affluenza alle urne è stata riportata come buona-soddisfacente nei principali centri urbani, meno nelle aree periferiche e remote del paese.
Gli attacchi finalizzati a disturbare il processo elettorale portati a termine dai gruppi di opposizione armata sono stati alcune centinaia; poco più di duecento i seggi elettorali (su un totale di 6.400) chiusi per problemi di sicurezza.
Sebbene i media internazionali abbiano diffuso un messaggio rassicurante sugli sviluppi dell’importante esercizio elettorale, i numerosi casi di brogli da più parte denunciati – oltre la mancanza di trasparenza nelle procedure di verifica del voto e degli elettori effettivamente presentatisi alle urne – si sono aggiunti a un elevato livello di insicurezza generale.
A fronte di tale quadro, e nell’ottica di un disimpegno ormai prossimo da parte degli attori fino ad oggi impegnati nel difficile processo di stabilizzazione e transizione del paese, Stati Uniti e attori regionali proseguono nel guardare con favore all’ipotesi di un bilanciamento di poteri “adeguato” tra gruppi di potere pashtun e le altre minoranze.
Completata la fase di conteggio dei voti, Abdullah Abdullah (ex ministro degli esteri, metà tagico e pashtun) e Ghani Ahmadzai (ex ministro delle finanze, pashtun) saranno i due candidati chiamati a confrontarsi per l’accesso alla poltrona presidenziale in occasione del secondo turno elettorale che si svolgerà all’inizio della prossima estate. Infatti, come previsto, nessuno dei due ha ottenuto più del cinquanta percento dei voti; e ciò imporrà l’inevitabile ricerca di accordi negoziali tra le parti.
Zalmai Rassoul, pashtun apprezzato dai tagichi e sostenuto da Karzai, terza e potenziale incognita, potrebbe fare la differenza appoggiando l’uno o l’altro candidato (con buona probabilità Ghani).
L’eredità di Karzai
Si chiude, almeno sul piano formale, il ciclo politico di Hamid Karzai, l’uomo scelto dall’amministrazione statunitense dell’allora presidente Bush per sancire l’inizio del nuovo Afghanistan: un Afghanistan che si voleva pacificato, democratico, con uno Stato efficiente dal punto di vista dell’organizzazione amministrativa e che rispondesse a quelle che erano le priorità imposte da un’opinione pubblica globale ancora sotto shock dai tragici eventi dell’11 settembre 2001: ossia la fine di una guerra trentennale, lotta al terrorismo, diritti per le donne, accesso all’istruzione, democrazia.
Insomma, un Karzai che si è dimostrato politico capace, prima presidente ad interim e poi, per due mandati, eletto dal suo popolo; certo non sono mancate le accuse, e le conferme, di brogli elettorali, irregolarità, corruzione, ma questo non cambia la sostanza: Hamid Karzai è stato il presidente dell’Afghanistan e degli afghani senza soluzione di continuità per oltre un decennio.
Un politico certamente forte, di una forza garantita anche dagli equilibri di potere che è riuscito a costruire e a mantenere, ma anche poco trasparente, ambiguo: ricordiamo la riforma del nuovo codice penale, con le limitazioni ai diritti delle donne, il rifiuto alla firma dell’accordo di sicurezza bilaterale che è alla base di una permanenza di truppe straniere su suolo afghano dopo il 2014, e il coinvolgimento della sua famiglia nel business del narcotraffico. Insomma un presidente molto discusso.
Ma il merito più grande, questo è innegabile, è l’aver saputo dimostrare il coraggio di aprire alla collaborazione e al dialogo. A livello regionale, Karzai ha lavorato molto bene nell’instaurare ottime relazioni diplomatiche e commerciali con gli attori regionali: dall’Iran, alla Cina, al Pakistan, all’India, alle confinanti repubbliche ex-sovietiche.
Inoltre, ha saputo aprire un canale di comunicazione con i taliban, un dialogo più volte interrotto, che ancora non si sa dove porterà, ma pur sempre un dialogo che comunque vada a finire avrà posto le basi per una soluzione di compromesso, una soluzione tipicamente afghana di cui si sente il bisogno dopo gli ultimi tredici anni di guerra.
Gli sviluppi afghani dal punto di vista dei Taliban
Il 18 giugno di quest’anno verrà formalizzato il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afghane.
I gruppi di opposizione armata, taliban per primi, stanno aspettando proprio quel momento per raccogliere i frutti di una guerra combattuta per più di tredici anni; e lo faranno da una posizione vantaggiosa, dimostrando di essere una minaccia concreta e imbattuta, avendo tenuto sotto scacco la più grande coalizione militare contemporanea. Proprio i taliban hanno dimostrato di essere capaci sul piano militare come su quello politico e, ancor più, su quello mediatico.
Lo scorso anno il leader dei taliban ha affermato che i mujaheddin non sono interessati al controllo dell’intero Paese, quanto piuttosto a dar vita a un "governo afghano inclusivo e basato sui principi islamici". Una chiara strategia di propaganda mediatica indirizzata all’opinione pubblica globale.
Ma, nel frattempo, è continuata senza soluzione di continuità l’offensiva militare, concentrata su obiettivi in prevalenza afghani: insomma, un’azione efficace e una capacità operativa che non presentano segni di cedimento.
Nel concreto, mancano dati attendibili sulle capacità esprimibili da un’insurrezione armata forte di circa 20-40.000 unità. Ma, sebbene molti osservatori ritengano che l’insurrezione nel suo complesso non rappresenti una minaccia strategica, è però vero che gli effetti strategici della resistenza hanno imposto un accelerazione del disimpegno afghano, imponendo tempi e priorità al lento processo negoziale che – nelle intenzioni di chi lo sostiene, Stati uniti in primis – dovrebbe portare a una soluzione di compromesso accettabile.
Non per questo l’azione offensiva insurrezionale parrebbe orientata a ridimensionarsi nell’intensità e negli effetti più manifesti. È una dimostrazione di forza continua e costante orientata a colpire le sedi del potere governativo locale e nazionale, le caserme militari e i posti di polizia, i seggi elettorali: insomma tutti i simboli di quello Stato afghano che la comunità internazionale ha cercato di sostenere nei tredici anni di impegno politico e militare.
Breve analisi conclusiva
Indipendentemente dai risultati elettorali, l’accesso a forme di potere (formale-informale) da parte dei taliban è una questione accettata dalla Comunità internazionale e dalla stessa Nato; ciò potrebbe portare a una spartizione territoriale de facto dell’Afghanistan dove a un Sud pashtun, posto sotto l’influenza taliban e sostenuto da Pakistan e Arabia Saudita, si contrapporrebbe un Nord eterogeneo, sostenuto dagli attori regionali antagonisti tra i quali certamente Iran, Russia, Cina. In tale quadro l’aspetto economico sarebbe il legante di questo probabile accordo tra le parti, e forse l’unica possibilità di stabilità potrebbe essere data dal compromesso di natura economica.
Una ipotesi di divisione, quella alla quale si è accennato che, sul lungo termine, porterebbe al riaccendersi di conflittualità allargate su base etnica.
In tale contesto, pur non cadendo nella semplificazione di un problema molto più complesso, i gruppi di potere politico ed economico afghani cercheranno di conservare le proprie prerogative garantendo gli equilibri di potere esistenti e consolidati, sebbene al contempo potrebbero spingere verso uno stato di conflittualità che si muove su linee di demarcazione etno-culturale ma che si alimenta di dinamiche ed equilibri di natura economica, e a questo si sommeranno indubbiamente gli interessi legati al florido mercato del narcotraffico (che, nonostante la presenza della Nato, non ha fatto che aumentare).
In sintesi, quella che si prospetta all’orizzonte è un’inquieta fase post-elettorale, anche a causa delle irregolarità e dei brogli che verranno denunciati; inoltre, lo stato di incertezza sarà amplificato da spinte multilivello verso gli accordi funzionali al secondo turno elettorale dove il candidato più accreditato, Abdullah Abdullah, potrebbe vedersi contrapposto a un’unica grande coalizione pashtun a sostegno di Ghani.
Molto dipenderà da come gli stessi pashtun nel sud del paese voteranno – e quanti voteranno –, anche in relazione alla forte influenza dei taliban in quella parte dell’Afghanistan.
articolo pubblicato su Osservatorio Strategico CeMiSS 3/2014 (pp. 67-70)
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