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È sempre un rischio fare i profeti in casa propria. Ma tu non sei un profeta, obietterà qualcuno. Giusto, per quanto a suo tempo abbia scritto un libro che pone a confronto le profezie sulla “fine del mondo” con gli scenari ambientali, sociali, antropologici, economici e politici del mondo in cui viviamo. Anche L’inferno chiamato Afghanistan è a suo modo profetico e sfiora il tema che Parolario ha scelto quest’anno: “Leggere il futuro”. Nel mio libro, infatti, il futuro è come il convitato di pietra del Don Giovanni di Mozart. È una presenza che incombe inquietante e minacciosa. Va da sé che il futuro dell’Afghanistan – un Paese dove ho vissuto per tre mesi come un viaggiatore d’altri tempi, privo di credenziali, senza mansioni e scorta armata – condizionerà non solo i delicati equilibri geo-politici di una regione del pianeta che gorgoglia come una pentola a pressione, ma la politica delle nazioni del Patto Atlantico e di quelle (Russia, Cina, ecc) che hanno mire espansionistiche. In questo momento, dal punto di vista mediatico, l’Afghanistan non è up to date, cioè di moda. Sembra che alla gente non importi più sapere cosa accade laggiù e i mass-media siano stanchi di raccontarlo. Quando se ne scrive o parla, infatti è come se venisse servito un piatto di minestra riscaldata. Eppure, io scommetto che l’Afghanistan tornerà prepotentemente al centro dell’attenzione e per questa ragione il mio libro può essere considerato una fonte di ispirazione, un utile vademecum per sapere cosa ci aspetta.
Un po’ profeta lo sono, forse, perché nell’offrire al lettore le chiavi di accesso di un inferno rutilante e misterioso, suggerisco anche come potrà evolversi la situazione. Per fare ciò ho vissuto esperienze estreme, per molti aspetti avventurose. Sono stato creduto un agente segreto o un pazzo. Sono stato arrestato e ho corso diversi pericoli. Ho colto il genius loci e l’ho raccontato senza reticenze, schierandomi dalla parte della verità e denunciando gli intrighi del potere. Ho dipinto l’affresco di una realtà che conosciamo solo attraverso i reportage dei giornalisti embedded e perciò la conosciamo poco e male. La mia non vuole essere una critica agli inviati dei grandi giornali e delle televisioni. È una constatazione; raramente trova chi cerca in fretta. Io non avevo fretta a Kabul né ho avuto fretta a Herat. Ho avuto il tempo di raccogliere centinaia di piccole tessere smaltate e di metterle insieme, formando un intenso mosaico. Il mio libro è un’illustrazione incisiva, documentata, piena di passione, ma è anche un racconto minimalista e chi l’ha già letto sostiene che è pieno di poesia. Ho voluto mostrare la vita e la morte e di entrambe sono stato testimone oculare. Ho messo a nudo la condizione femminile e quella non meno drammatica dei bambini, la quotidianità nelle carceri e nei campi per sfollati, i retroscena delle operazioni di guerra e di pace del nostro contingente militare, il business degli aiuti umanitari, il fenomeno dilagante della droga, il vuoto sanitario, la corruzione politica. Probabilmente ho saputo cogliere anche gli aspetti poetici e spirituali di un popolo condannato all’inferno pur amando la vita. Non so se le parole possono squarciare l’omertà e scuotere le coscienze ma so che ne L’Inferno chiamato Afghanistan, esse si agitano come un plettro. La lettura solletica le corde del cuore e le fa vibrare, ora con vigore ora dolcemente, suscitando sentimenti di segno opposto: sdegno, rabbia e disgusto accanto alla commozione, all’empatia e al sentire più intimo, permeabile al fascino dell’Oriente misterioso e del sogno infranto. Sicché il lettore si trova obbligato a una scelta: odiare o amare. In alternativa, potrà sempre tacciarmi di presunzione.
In realtà, per descrivere il mio libro ho usato le parole di chi l’ha letto e l’ha apprezzato. Dovrebbe essere letto nelle scuole superiori! – ha scritto un mio fan. Sta di fatto che anche in Afghanistan, come altrove, ho assecondato il mio istinto, che è quello di osservare in maniera disincantata ma partecipe la commedia umana e di fissare gli aspetti più intimi e particolari.
Il 3 settembre, sfidando il detto che nessuno è profeta in patria, giocherò finalmente in casa. Dialogherà con me Bruno Profazio, il vicedirettore del quotidiano La Provincia, che mi incoraggiò a scrivere dei pezzi giornalistici e a inviarli dall’Afghanistan. Sarà come tornare all’inizio del mio viaggio, quando molti mi chiedevano stupiti e un poco preoccupati: “Cosa ci vai a fare laggiù?”.
Adesso sono in grado di rispondere.
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