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L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber

Creato il 14 giugno 2012 da Alessandro Manzetti @amanzetti

L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
Una libro che rileggo sempre volentieri è I quarantanove racconti (The First Forty-nine Stories) di Ernest Hemingway (Einaudi) pubblicato per la prima volta nel 1938. Questa antologia di racconti, per chi non ha ancora avuto occasione di avvicinare l'opera di Hemingway, e i suoi capolavori, è un avvincente viaggio tra alcuni dei temi più cari all'autore: la guerra, l'Africa, la Spagna, la vita e la morte. Storie raccontate con la consueta magica armonia della prosa di Hemingway, autentica e cristallina, storie che rimangono dentro e fanno riflettere. La capacità dell'autore di gestire la forma del racconto breve, la capacità di sintesi, sono semplicemente straordinarie. Storie nelle quali non manca nulla, e niente è di troppo. Tra i racconti dell'antologia ho sempre amato in particolare Colline come elefanti bianchi (Hills like White Elephants)  e La breve vita felice di Francis Macomber (The Short Happy Life of Francis Macomber), opere molto diverse tra loro, ma che come tutte le storie raccontate da Hemingway riescono a esplorare in profondità le varie tonalità della vita e dell'animo umano, le ombre e le luci che si affrontano continuamente, prendendo il sopravvento, a momenti, le une sulle altre. La costruzione della prosa è diretta, non ha bisogno di troppe invenzioni letterarie e di forzature di stile, la penna dell'autore scorre e incide con immediatezza, proprio come ciò che ci presenta la vita.
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
Nella prefazione l'autore parla dei racconti e delle sue preferenze:
In questo libro ci sono racconti di ogni genere. Spero che ne troverete qualcuno che vi piace. Rileggendoli, quelli che mi piacciono di più - a parte i racconti che hanno raggiunto una certa notorietà, per cui gli insegnanti li includono nelle antologia che i loro alunni devono comprare per i corsi di letteratura, e tu leggendoli sei sempre un tantino imbarazzato e ti chiedi se davvero li hai scritti tu o se per caso li hai sentiti in qualche posto - sono La breve felice vita di Francis Macomber, In un altro paese, Colline come elefanti bianchi, Come non sarà mai, Le Nevi del Kilimangiaro, Un posto pulito, illuminato bene, e un racconto intitolato La luce del mondo che oltre a me non è mai piaciuto a nessuno. Ce ne sono anche degli altri, perchè se non ti piacessero non li pubblicheresti.
Ma oltre ai racconti il libro (io possiedo la versione ristampata di Einaudi del 1999) contiene anche qualcosa di davvero speciale, che ritengo imperdibile, sia per i lettori che per gli scrittori: una lunga intervista all'autore a cura di George Plimpton (alla quale sono dedicate circa venti pagine): Il Principio dell'Iceberg - Intervista a Ernest Hemingway sull'arte di scrivere e narrare. Affascinante anche l'introduzione all'intervista che descrive in dettaglio l'ambiente dove scrive l'autore e le modalità e abitudini di organizzazione del lavoro, ecco una piccolo estratto:
(...) Quando mette mano a qualcosa di nuovo Hemingway comincia sempre così, scrivendo a matita su fogli bianchi di carta velina. La pila di questi leggeri fogli bianchi è tenuta insieme da un portablocco con molla con su scritto "bollette da pagare", e Hemingway estrae dal blocco un foglio alla volta, man mano che gli serve. Lo mette di trarverso sull'appoggio, si china flettendo il braccio sinistro e tenendo il foglio con la mano, e comincia a riempire pagine e pagine di quella sua calligrafia che con gli anni si è fatta sempre più grande, infantile, avara di punteggiature e maiuscole, con le X che segnalano gli a capo. Una volta che la pagina è completata, Hemingway la fissa a rovescio su un secondo portablocco e risistema il tutto alla destra della macchina da scrivere. (...) Giorno dopo giorno annota i progressi - "per non barare" - su un ampio tabellone ricavato dal fianco di una gazzella impagliata. Le cifre sul tabellone indicano il numero di parole prodotte giornalmente, e variano da 450, 575, 462, 512, fino a 1.250. Talvolta, quando i risultati sono buoni e il lavoro procede bene, Hemingway, senza sentirsi in colpa, decide di concedersi una giornata di pesca nella corrente del Golfo (...)
Prima di entrare nel dettaglio sul racconto La breve vita felice di Francis Macomber, al quale è dedicato questo articolo, riporto anche un paio di domande e risposte dell'intervista a Hemingway, tra le quali anche un breve estratto di quella che spiega Il Principio dell'Iceberg, così definito dall'autore, che offre il titolo all'intervista:
[George Plimpton] Allora, quando non scrive è sempre attento, alla ricerca di qualcosa che le potrebbe tornare utile?
[Ernest Hemingway] Certo, se uno scrittore smette di osservare è finito. Ma non è che debba farlo consapevolmente, pensando che potebbe servirgli. Forse all'inizio è diverso, ma col tempo, tutto quello che lo scrittore vede finisce nella grande riserva delle cose che ha osservato o che conosce. Ammesso che a qualcuno possa interessare, io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell'iceberg: i sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quello che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott'acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L'importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette qualcosa perchè ne è all'oscuro, allora le lacune si noteranno.(...)[George Plimpton] Quali sono i suoi precursori letterari, gli autori da cui ha imparato di più?
[Ernest Hemingway] Mark Twain, Flaubert, Stendhal, Bach, Turgenev, Tolstoj, Dostoievskij, Checov, Andrew Marshall, John Donne, Maupassant, il vecchio Kipling, Thoreau, il capitano Marryat, Shakespeare, Mozart, Quevedo, Dante, Virgilio, Tintoretto, Hieronymous Bosch, Bruegel, Patinier, Goya, Giotto, Cèzanne, Van Gogh, Gauguin, San Juan de la Cruz, Gòngora - ci vorrebbe un giorno intero per citarli tutti. Ma poi si potrebbe pensare che invece di ricordare chi ha influenzato la mia vita e il mio lavoro, voglia vantare una erudizione che non possiedo. Questa non è una domanda scontata. E' un'ottima domanda e richiede un esame di coscienza. Ho fatto il nome di alcuni pittori, almeno avevo cominciato, perchè ho imparato a scrivere più da loro che dagli scrittori. Come, chiede lei? Per spiegarglielo mi ci vorrebbe un giorno intero. Credo per esempio sia ovvio che cosa si può imparare dai compositori studiando l'armonia e il contrappunto.
Nella seconda domanda l'autore cita anche pittori e musicisti come essenziali elementi della sua formazione letteraria, questo è particolarmente  interessante, affine alla linea editoriale di questo blog, che accomune arte e letteratura, forme di comunicazione, a mio avviso, (ma a quanto pare anche secondo Hemingway)  inscindibili.
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
Ma arrivo al racconto La breve felice vita di Francis Macomber, inclusa nell'antologia I quarantanove racconti. Questa storia ci svela l'Africa vista con gli occhi di Hemingway, ma è in realtà lo scenario di un conflitto interiore, quanto mai umano, che si intreccia in una vita di coppia. Più nessuna paura, questo è il motto del racconto, di shakesperiana memoria, questo è il difficile percorso di Francis Macomber verso il superamento della paura, il raggiungimento della libertà, della verità, della felicità. Le dinamiche di una coppia americana saranno stravolte durante un safari in Africa, grazie alla caccia a leoni e bisonti che sembrano simboleggiare le nostre paure, come mangiatori di consapevolezze e ipocrisie. L'autore riesce a comprimere in un breve racconto molte tematiche, lasciandoci alla fine di fronte a delle riflessioni scottanti e dolorose, la ricerca e il raggiungimento della felicità, la breve durata di quell'attimo fuggente che per un momento riusciamo a afferrare con la nostra virtuale rete per farfalle piena di buchi. Ma non voglio entrare in troppi dettagli, potete leggere di seguito il racconto in versione integrale, e arrivare direttamente alle conclusioni e  riflessioni con la vostra pelle e la vostra storia:
La breve vita felice di Francis Macomber di Ernest Hemingway
Era quasi ora di pranzo e tutti sedevano sotto il doppio telo verde della tenda della mensa facendo finta di niente. «Cosa preferisce? Succo di Umetta o spremuta d'arancia?» chiese Macomber. «Succo di Umetta con una spruzzata di seltz e un po' di gin» gli disse Robert Wilson. «Anche per me. Ho bisogno di qualcosa» disse la moglie di Macomber. «Mi sembra giusto» convenne Macomber. «Gli dica di farne tre.» Il boy che si occupava della mensa si era già messo a prepararli, togliendo le bottiglie  dalle sacche frigorifere di tela che trasudavano l'umidità nel vento che soffiava tra gli alberi che ombreggiavano le tende. «Cos'avrei dovuto dare agli uomini?» chiese Macomber. «Una sterlina sarebbe più che sufficiente» gli disse Wilson. «Non vorrà viziarli.» «Penserà il capo a dividerla?» «Assolutamente.» Francis Macomber, mezz'ora prima, era stato portato in trionfo dai bordi del campo fino alla sua tenda sulle braccia e sulle spalle del cuoco, dei boys personali, del conciapelli e dei portatori. I portatori di fucile non avevano partecipato alla manifestazione. Quando gli indigeni lo avevano deposto davanti alla porta della tenda, lui aveva stretto la mano a tutti, ricevuto le loro congratulazioni, e poi era entrato nella tenda e si era seduto sul letto fino a quando era entrata sua moglie. Lei non gli aveva rivolto la parola, quando era entrata, e lui aveva lasciato subito la tenda per lavarsi la faccia e le mani nel lavabo portatile esterno e proseguire fino alla mensa, dove si era seduto, all'ombra e nella brezza, in una poltroncina di tela. «Ha preso il suo leone» gli disse Robert Wilson «e una gran bella bestia, per giunta.» La signora Macomber gli scoccò un'occhiata fulminea. Era una donna molto bella e ben conservata cui l'avvenenza e la posizione sociale avevano permesso, cinque anni prima, di guadagnare cinquemila dollari solo per sponsorizzare, con le sue fotografie, un prodotto di bellezza che non aveva mai usato. Da undici anni era la moglie di Francis Macomber.
«È un bel leone, no?» disse Macomber. Adesso sua moglie guardò lui. Guardava quegli uomini, entrambi, come se non li avesse mai visti. Uno, Wilson, il cacciatore bianco, sapeva di non averlo mai visto per davvero. Era un uomo di statura media con i capelli biondicci, un paio di baffi corti e ispidi, una faccia molto rossa e due freddissimi occhi celesti con agli angoli delle sottili rughe bianche che quando sorrideva s'incidevano allegramente nella pelle del suo viso. Ora Wilson le sorrise e lei spostò lo sguardo dal viso di lui al modo in cui le sue spalle spiovevano sotto la giubba troppo grande che indossava, con le quattro grosse cartucce infilate negli occhielli dove avrebbe dovuto esserci il taschino sinistro, alle sue manacce brune, ai calzoni vecchi, agli stivali sporchissimi e di nuovo alla faccia rossa. Notò il punto in cui il rosso acceso del viso si fermava contro una riga bianca che segnava il cerchio lasciato dal suo Stetson, ora appeso a uno dei pioli del palo della tenda.
«Be', al leone» disse Robert Wilson. Tornò a sorridere e, senza sorridere, lei guardò incuriosita suo marito. Francis Macomber era un uomo molto alto, e anche molto ben fatto se ti piacevano quelle ossa troppo lunghe, era bruno, con i capelli corti come quelli di un canottiere e due labbra piuttosto sottili, ed era considerato un bell'uomo. Portava indumenti da safari dello stesso tipo di quelli indossati da Wilson, solo che i suoi erano nuovi, lui aveva trentacinque anni, si teneva in forma, era un buon giocatore di tennis, aveva vinto un mucchio di gare di pesca d'altura, e aveva appena dimostrato, davanti a tutti, di essere un codardo.
«Al leone» disse. «Non potrò mai ringraziarla per quello che ha fatto.» Margaret, sua moglie, distolse lo sguardo dal marito per riportarlo su Wilson. «Non parliamo del leone» disse. Wilson la guardò senza sorridere, e allora a sorridergli fu lei. «È stata una giornata molto strana» disse. «Non avrebbe dovuto mettersi il cappello anche sotto la tenda, a mezzogiorno? Me l'ha detto lei, sa.» «Me lo potrei mettere» disse Wilson. «Sa che è molto rosso in faccia, signor Wilson?» gli disse lei, e sorrise di nuovo. «Il bere» disse Wilson. «Non credo» disse lei. «Francis beve come una spugna, eppure non è mai rosso in faccia.» «Oggi sì» tentò di scherzare Macomber. «No» disse Margaret. «Oggi rossa in faccia sono io. Ma il signor Wilson è sempre rosso in faccia.» «Sarà un fatto di costituzione» disse Wilson. «Le dispiacerebbe lasciar perdere? La mia bellezza, insomma, non è un grande argomento, eh?» «Ho appena cominciato.» «Be', finiamola» disse Wilson. «Sarà difficile fare conversazione» disse Margaret. «Non essere sciocca, Margot» disse suo marito. «Perché difficile?» disse Wilson. «Abbiamo preso un bellissimo leone.» Margot li guardò entrambi ed entrambi si accorsero che stava per piangere. Wilson se lo aspettava da un pezzo e lo temeva. Macomber non era più in grado di temerlo. «Vorrei che non fosse accaduto. Oh, vorrei che non fosse accaduto» disse lei, e si avviò verso la sua tenda. Piangendo non faceva il minimo rumore, ma si vedevano le sue spalle sussultare sotto la stoffa della camicia che indossava, che era rosa e resistente ai raggi del sole. «I crucci delle donne» disse Wilson all'uomo alto. «Non è niente. Tensione nervosa e una cosa e l'altra.» «No» disse Macomber. «Credo che ormai porterò questo marchio per tutto il resto della mia vita.» «Sciocchezze. Beviamo un goccio dell'ammazzagiganti» disse Wilson. «Si dimentica tutto. Non ha proprio nessuna importanza.» «Potremmo provarci» disse Macomber. «Ma non dimenticherò quello che ha fatto per me.» «Niente» disse Wilson. «Tutte sciocchezze.»
Così rimasero là seduti all'ombra dov'erano piantate le tende sotto le ampie chiome di un gruppo di acacie con un dirupo costellato di massi dietro di loro, e davanti uno spiazzo erboso che scendeva fino alla riva di un corso d'acqua pieno di massi con la foresta al di là, e bevvero i loro succhi di Umetta, freschi al punto giusto, ed evitarono di guardarsi mentre i boys apparecchiavano la tavola per il pranzo. Wilson era sicuro che a quest'ora i boys sapevano tutto, e quando vide il boy personale di Macomber guardare incuriosito il suo padrone mentre metteva i piatti sulla tavola gli fece una sfuriata in swahili. Il boy voltò le spalle con una faccia priva di espressione. «Cosa gli stava dicendo?» domandò Macomber. «Niente. Gli ho detto di svegliarsi se non vuole che gliene faccia dare una quindicina di quelle sode.» «Di cosa? Scudisciate?» «È assolutamente illegale» disse Wilson. «Si dovrebbero multare.» «Lei li fa ancora frustare?» «Oh, sì. Potrebbero fare il diavolo a quattro se decidessero di reclamare. Ma non lo fanno. Preferiscono questo alle multe.» «Che strano!» disse Macomber. «Non è strano, veramente» disse Wilson. «Lei cosa preferirebbe fare? Cavarsela con una buona fustigazione o rimetterci la paga?» Poi si sentì in imbarazzo per aver fatto quella domanda e prima che Macomber potesse rispondere soggiunse: «Pigliamo tutti la nostra batosta quotidiana, sa, in un modo o nell'altro. Non che questo fosse meglio. Buon Dio, pensò. Sono un vero diplomatico, no? «Sì, pigliamo la nostra batosta quotidiana»» disse Macomber, sempre senza guardarlo. «Non immagina quanto mi rincresce per la storia del leone. Ma la cosa finisce qui, no? Volevo dire, non lo saprà nessuno. Eh?» «Vuoi sapere se andrò a raccontarlo al Mathaiga Club?» Ora Wilson lo guardava freddamente. Questo non se lo aspettava. Allora è anche un uomo maledettamente stupido oltre che un maledettissimo vigliacco, pensò. E dire che fino a oggi mi era piuttosto simpatico. Ma come si fa a capire cosa frulla nella testa di un americano? «No» disse Wilson. «Io sono un cacciatore di professione. Noi non parliamo mai dei nostri clienti. Su questo può stare tranquillo. Ma raccomandarci di non parlarne è considerato cattiva educazione.»
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
Aveva ormai deciso che rompere sarebbe stato assai più facile. Così avrebbe mangiato da solo e durante i pasti avrebbe potuto leggere un libro. Loro avrebbero mangiato per conto proprio. Li avrebbe aiutati nel safari senza uscire dal binario della semplice cortesia - come dicevano i francesi? con la più distinta considerazione - e sarebbe stato maledettamente più facile che doversi sorbire tutte queste insulsaggini emotive. Wilson avrebbe offeso Macomber e ci sarebbe stata una bella rottura, netta. Così avrebbe potuto leggere durante i pasti e avrebbe ancora bevuto il loro whisky. Era la frase che si diceva quando il safari prendeva una brutta piega. Incontravi un altro cacciatore bianco e gli chiedevi: «Come va la vita?» e lui rispondeva: «Oh, sto ancora bevendo il loro whisky», e sapevi che era andato tutto a rotoli. «Mi spiace» disse Macomber, e lo guardò con la sua faccia americana che sarebbe rimasta quella di un adolescente finché lui non avesse raggiunto la mezza età, e Wilson notò i suoi capelli a spazzola i suoi begli occhi solo un tantino sfuggenti, il naso diritto, te labbra sottili e la mascella ben disegnata. «Mi spiace, non me n'ero reso conto. Ci sono tante cose che non so.» Che poteva fare, dunque?, pensò Wilson. Era prontissimo a rompere, alla svelta e nettamente, ed ecco che il furfante si scusava dopo essere stato appena insultato. Feceun altro tentativo. «Non dirò una parola, stia tranquillo» disse. «Devo guadagnarmi la vita. Saprà pure che in Africa non c'è donna che manchi il suo leone e non c'è bianco che tagli la corda.» «Sono scappato come un coniglio» disse Macomber. Ecco. Cosa diavolo potevi fare con un uomo che parlava così? si domandava Wilson. Wilson guardò Macomber con i suoi occhi smorti e azzurri da mitragliere e l’altro reagì con un sorriso. Aveva un sorriso simpatico, se non badavi a quello che gli passava negli occhi quando era stato mortificato. «Forse potrò rifarmi con i bufali» disse. «La prossima volta tocca a loro, no?» «Domattina, se vuole» disse Wilson. Forse si era sbagliato. Forse aveva commesso un errore. Ma certo, era così che bisognava prenderla. Valli a capire, questi americani. Così Wilson era di nuovo a fianco di Macomber. Se potevi dimenticare la mattina. Ma naturalmente non potevi. E la mattina era andata proprio male. «Ecco che arriva la memsahib» disse. La moglie di Macomber stava venendo dalla sua tenda con un'aria rinfrescata e allegra e molto amabile. Aveva un volto ovale perfettissimo, così perfetto che la credevi un'oca. Ma un'oca non era, pensò Wilson, nossignore, non era affatto un'oca. «Come sta il signor Wilson, con la sua bella faccia rossa? Ti senti meglio, Francis, tesoro mio?» «Oh, molto» disse Macomber. «Ho deciso che è meglio lasciar perdere» disse lei, sedendosi a tavola. «Che importanza può avere se Francis è bravo ad ammazzare i leoni? Non è mica il suo mestiere. È il mestiere del signor Wilson. Il signor Wilson fa veramente impressione, perché è capace di ammazzare qualunque cosa. Non è vero che lei ammazza qualunque cosa?» «Oh, sì, qualunque cosa» disse Wilson. «Proprio qualunque cosa.» Sono, pensava, le più dure della terra; le più dure, le più crudeli, le più rapaci e le più affascinanti, e i loro uomini si sono rammolliti, o hanno perso il controllo dei loro nervi, mentre loro si sono indurite. O è che scelgono gli uomini che sono in grado di manipolare? Non possono saperla tanto lunga all'età alla quale si sposano, pensò. Wilson era contento di essersi già fatto una cultura sulle donne americane» perché questa era proprio affascinante. «Domattina andremo a caccia di bufali» le disse. «Vengo anch'io» disse lei. «No, lei no.» «Oh sì, che vengo. Non posso, Francis?» «Perché non resti al campo?» «Per nulla al mondo» disse lei «Non vorrei perdermi una cosa come oggi.» Quando se n'era andata, stava pensando Wilson, quando si era allontanata per piangere sembrava una gran donna. Sembrava comprendere, capire, soffrire per lui e per sé e sapere come stavano le cose. Si allontana per venti minuti e ora è qui di nuovo, intatta, sotto lo smalto di quella crudeltà femminile americana. Sono le più odiose.Davvero le più odiose. «Domani daremo un altro spettacolo per te» disse Francis Macomber. «Lei non viene» disse Wilson. «Si sbaglia di grosso» disse lei. «E voglio tanto rivederla all'opera. Stamattina è stato adorabile. Se può dirsi adorabile, cioè, portare via la testa a un animale.» . «Ecco il pranzo» disse Wilson. «Lei è molto allegra, no?» «Perché no? Non sono venuta qui per annoiarmi.» «Be', non è stato noioso» disse Wilson. Vedeva i massi nel fiume e l'alta sponda con gli alberi, al di là, e non aveva dimenticato quel mattino. «Oh no» disse lei. «È stato delizioso. E domani. Non immagina l'ansia con cui aspetto che venga domani.» «E antilope alcina quella che le stanno servendo» disse Wilson. «Sono quei bestioni un po' simili alle vacche che saltano come lepri, no?» «Mi sembra una buona descrizione» disse Wilson. «La carne è ottima» disse Macomber. «L'hai uccisa tu, Francis?» chiese lei. «Sì.» «Non sono pericolose, vero?» «Solo se ti cascano addosso» le disse Wilson. «Sono proprio contenta.» «Perché non la pianti con le tue carognate, Margot, almeno per un po'?» disse Macomber, tagliando la bistecca di antilope e mettendo un po' di purè di patate, di sugo e di carote sulla forchetta rivolta all' ingiù con i rebbi piantai nel pezzo di carne. «Potrei anche farlo, forse» disse lei «visto che me lo chiedi con tanta delicatezza.» «Stasera berremo champagne per il leone» disse Wilson. «A mezzogiorno fa un po' troppo caldo.» «Oh, il leone» disse Margot. «Avevo dimenticato il leone!» Allora, pensava Robert Wilson tra sé, è proprio lei che vuole tormentarlo, no? O che sia la sua idea di far bella figura? Come dovrebbe comportarsi, una donna, quando scopre che suo marito è un gran vigliacco? È una donna maledettamente crudele, ma sono tutte crudeli. Comandano loro, si capisce, e per comandare si dev'essere crudeli, certe volte. Però io ne ho abbastanza, del loro maledetto terrorismo. «Prenda un altro po' di antilope» le disse educatamente.
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
Quel pomeriggio, sul tardi, Wilson e Macomber uscirono in macchina con il guidatore indigeno e i due portatori di fucile. La signora Macomber restò al campo. Faceva troppo caldo per andare in giro, disse, e a avrebbe accompagnati la mattina di buon'ora. Mentre si allontanavano, Wilson la vide là in piedi sotto il grosso albero, più carina che bella nel suo cachi sfumato di rosa, con i capelli neri pettinati all'indietro e raccolti in un nodo sulla nuca, la faccia fresca, pensò, come se fosse in Inghilterra. Li salutò con la mano mentre la macchina si allontanava tra l'erba alta della valletta e descriveva una curva tra gli alberi fino a sparire nella boscaglia che copriva le colline. In mezzo alla boscaglia trovarono un branco di impala, e lasciando la macchina inseguirono un vecchio maschio con le corna lunghe e larghe, e Macomber lo uccise con un colpo assai pregevole che abbatté l'animale a duecento metri buoni e fece fuggire il resto del branco in una sarabanda di impala che facevano balzi selvaggi saltando l'uno sul dorso dell'altro in lunghi voli con le zampe ripiegate, incredibili e sospesi come quelli che a volte si fanno nei sogni. «Quello era un bel colpo» disse Wilson. «Sono un bersaglio piccolo.» «E un trofeo che merita?» chiese Macomber. «È eccellente» gli disse Wilson. «Spari così e non avrà problemi.» «Crede che troveremo i bufali, domani?» «Ci sono buone probabilità. Vanno al pascolo la mattina presto, e può darsi che con un po’ di fortuna si riesca a sorprenderli all'aperto.» «Vorrei far dimenticare la storia del leone» disse Macomber. «Non è molto simpaticoesser visti da tua moglie mentre fai una cosa simile.» Io direi che sarebbe ancora più antipatico farla, pensò Wilson, moglie o non moglie, o parlarne dopo averla fatta. Invece disse: «Io non ci penserei più. Chiunque potrebbe farsi impressionare dal suo primo leone. Capitolo chiuso».
Ma quella sera dopo la cena e un whisky and soda accanto al fuoco prima di andare a letto, mentre Francis Macomber giaceva nella sua branda con la barra della zanzariera sopra la testa e ascoltava i rumori della notte, il capitolo non era chiuso. Non era né chiuso né aperto. Era lì, proprio come si era svolto, con certe parti in indelebile risalto, e lui provava una vergogna sconfinata. Ma più della vergogna si sentiva, dentro, una paura fredda e cavernosa. La paura era sempre lì come una grotta fredda e sdrucciolevole in tutta la sua vacuità, lì dove una volta c'era la sua fiducia in se stesso, e gli faceva venire ilvoltastomaco. Anche adesso era sempre lì con lui. Era cominciato la notte prima, quando lui si era svegliato e aveva udito il leone ruggire lungo il fiume, chissà dove. Era un suono profondo, e alla fine c’erano come dei grugniti tossicchianti da cui sembrava che la belva fosse appena fuori dalla tenda, e quando Francis Macomber si svegliò in piena notte e l'udì, ebbe paura. Sentiva sua moglie respirare tranquillamente, addormentata. Non c'era nessuno a cui dire che aveva paura, nessuno che avesse paura insieme a lui, e Macomber, là disteso, solo, non conosceva quel proverbio somalo che dice che ogni uomo coraggioso si fa spaventare tre volte da un leone; la prima volta che vede le sue orme, la prima volta che lo sente ruggire e la prima volta che se lo trova davanti. Poi, mentre facevano colazione alla luce della lanterna, fuori, nella tenda della mensa, prima che il sole spuntasse, il leone tornò a ruggire e Francis pensò che doveva essere proprio ai margini dell’accampamento. «Sembra un animale vecchio» disse Robert Wilson, alzando lo sguardo dalle aringhe affumicate e dal caffè. «Sentite come tossisce.» «È molto vicino?» «Un chilometro e mezzo a monte del fiume, o giù di lì.» «Riusciremo a vederlo?» «Andremo a dare un'occhiata.» «Va così lontano il suo ruggito? Si direbbe che fosse proprio qui.» «Va molto lontano» disse Robert Wilson. «È curioso che si senta così lontano. Spero che sia una bella bestia alla quale si possa sparare. I boys dicevano che ce n'era uno grossissimo, da queste parti:» «Se mi viene a tiro, dove dovrei colpirlo» chiese Macomber «per fermarlo?» «Alla spalla» disse Wilson. «Nel collo, se ci riesce. Spari all'osso. Lo metta giù.» «Spero di riuscire a colpirlo come si deve» disse Macomber. «Lei spara benissimo» gli disse Wilson. «Ci vada piano. Spari a colpo sicuro. Il primo messo a segno è quello che conta.» «A che distanza sarà?» «Non saprei. Dipende dal leone. Sparì solo a colpo sicuro Quand'è abbastanza vicino.» «A meno di cento metri?» chiese Macomber. Wilson gli rivolse un'occhiata frettolosa. «Cento va bene. Può anche darsi che le venga più vicino. Non dovrebbe cercare di sparargli a una distanza molto superiore. Cento è una distanza ragionevole. A cento metri può colpirlo dove vuole. Ecco che arriva la memsahib.» «Buongiorno» disse lei. «Allora, ci mettiamo a seguire quel leone?» «Appena avrà mangiato» disse Wilson. «Come sta?» «Magnificamente» disse lei. «Sono eccitatissima.» «Vado a vedere se è tutto pronto.» Wilson si allontanò. Mentre se ne andava, il leone tornò a ruggire. «Brutto fracassone» disse Wilson. «Ma ti faremo smettere.» «Che c'è, Francis?» gli domandò sua moglie. «Nulla» disse Macomber. «Non è vero» disse lei. «Sei agitato. Cos'hai?» «Nulla» disse lui. «Dimmelo.» Lo guardò. «Non stai bene?» «Sono quei maledetti ruggiti» disse lui. «È andato avanti così tutta la notte, sai.» «Perché non mi hai svegliato?» disse lei. «Mi sarebbe piaciuto sentirlo.» «Devo ammazzare quella maledetta bestia» disse Macomber, e sembrava giù di corda. «Be', è per questo che sei qui, no?» «Sì. Ma sono nervoso. Sentire i suoi ruggiti mi da ai nervi.» , «Allora, come ha detto Wilson, ammazzalo e fallo smettere di ruggire.» «Sì, cara» disse Francis Macomber, «Sembra facile, no?» «Non hai paura, eh?» «Naturalmente no. Però mi ha innervosito, sentirlo ruggire tutta la notte.» «Sta’ tranquillo, lo ucciderai» disse lei. «Lo so. Sono così ansiosa di vederlo.» «Finisci la colazione e ci metteremo in moto.» «È ancora buio» disse lei. «Che ora ridicola.» Proprio allora il leone ruggì, e una vibrazione profonda, lamentosa, ascendente» improvvisamente gutturale parve far tremare Parta, finendo con un sospiro e un profondo, sonoro brontolio. «Sembra qui» disse la moglie di Macomber. «Dio mio» disse Macomber. «Non sopporto questa maledetta cagnara.» «È davvero impressionante.» «Impressionante? È spaventosa.» Proprio allora arrivò Robert Wilson col suo Gibbs 505, corto, brutto e con la canna 8 grossissima. Sorrideva. «Andiamo» disse. «Il suo portatore ha lo Springfield e la carabina di grosso calibro. È tutto in macchina. Avete preso un po' di munizioni?» «Sì.» «Io sono pronta» disse la signora Macomber. «Dobbiamo fargli smettere di far tanto baccano» disse Wilson. «Si metta davanti, lei. La memsahib può stare qui dietro con me.»
Salirono in macchina e, nella prima luce grigia del giorno, si allontanarono tra gli alberi, lungo la riva del fiume. Macomber aprì l'otturatore della carabina e vide che era caricata con cartucce blindate, chiuse l'otturatore e mise la sicura. Notò che gli tremavano le mani. Si frugò in tasca per sentire quante cartucce aveva e passò le dita su quelle infilate nella cartucciera. Si girò verso Wilson, che stava seduto con sua moglie sul sedile posteriore della tozza macchina priva di portiere, entrambi eccitati e sorridenti, e Wilson si sporse in avanti e sussurrò: «Vede? Gli uccelli si abbassano. Segno che il nostro amico ha lasciato la sua preda.» Sull'altra riva del fiume Macomber vide, sopra gli alberi, gli avvoltoi che volavano in cerchio e scendevano a perpendicolo. «È probabile che venga a bere da queste parti» sussurrò Wilson. «Prima di andare a rifornirsi. Tenete gli occhi aperti.» Stavano viaggiando lentamente lungo l'alta riva del fiume che qui formava una profonda incisione nel terreno fino al suo letto cosparso di macigni, e il loro tortuoso itinerario li portava ora dentro ora fuori dalle propaggini della foresta. Macomber stava guardando l'altra riva quando sentì che Wilson lo prendeva per un braccio. La macchina si fermò. «Eccolo» lo udì mormorare. «Davanti a noi, sulla destra. Scenda e vada a prenderlo. È un magnifico leone.» Allora Macomber vide il Leone. Era di profilo, con la grossa testa alta e voltata nella loro direzione. La brezza del primo mattino che spirava verso di loro gli scompigliava appena la criniera scura, e il Leone sembrava enorme, così stagliato sulla parte più alta della riva nella grigia luce mattutina, con le spalle massicce e il corpo cilindrico agile e vigoroso. «A che distanza è?» chiese Macomber, alzando il fucile. «Settanta metri circa. Scenda e vada a prenderlo.» «Non potrei sparargli da qui?» «Non si spara ai leoni dalle macchine» si sentì mormorare, all'orecchio, da Wilson. «Scenda. Non rimarrà là tutto il giorno.»
Macomber uscì dal vano tondeggiante di fianco al sedile anteriore, mise il piede sul predellino e scese a terra. Il Leone era sempre fermo e guardava maestosamente e con freddezza quest'oggetto che ai suoi occhi, sullo sfondo degli alberi, doveva sembrare grosso come il più grosso dei rinoceronti. Sopravvento, non sentiva l'odore dell'uomo, e guardava l'oggetto muovendo un po' il testone di qua e di là. Poi, mentre guardava l'oggetto, senza paura, ma esitando ad andar giù a bere con quella cosa là davanti a lui, vide che se ne staccava la figura di un uomo e voltò la testa pesante e fece per correte al riparo degli alberi quando udì uno schianto repentino e sentì l'urto di una palla piena calibro 30.06 da 220 grani che gli squarciò il fianco e gli riempì lo stomaco di una nausea improvvisa e cocente. Sentendosi pesante e impacciato, con la pancia piena e la testa che girava per la ferita, trotterellò tra gli alberi verso l'erba alta, dove avrebbe potuto rifugiarsi, quando si udì un secondo schianto, e qualcosa sibilò sopra di lui squarciando l'aria. Poi lo schianto tornò a farsi sentire e lui incassò il colpo, che gli bucò le costole inferiori e gli affondò nel corpo, e allora galoppò, col sangue caldo che improvvisamente gli schiumava dalla bocca, verso l'erba alta dove avrebbe potuto accovacciarsi e rendersi invisibile e costringerli a portare quell'oggetto che faceva gli schianti tanto vicino da poter spiccare un balzo e atterrare l'uomo che lo imbracciava.
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
Macomber non aveva pensato a come si sentisse il leone, quando era sceso dalla macchina. Sapeva solo che gli tremavano le mani, e mentre si allontanava dalla macchina gli era quasi impossibile muovere le gambe. All'altezza delle cosce erano rigide, ma sentiva i muscoli tremare. Alzò la carabina, mirò alla giuntura fra la testa e le spalle del leone e tirò il grilletto. Non accadde nulla, anche se Macomber tirò fino a pensare che si sarebbe spezzato il dito. Solo allora si rese conto che non aveva tolto la sicura, e mentre abbassava la carabina per togliere la sicura fece rigidamente un altro passo avanti e il leone, vedendo ora la sua silhouette ben distinta da quella della macchina, si voltò e partì al trotto e Macomber, quando sparò, udì un tonfo che voleva dire che il proiettile era andato a segno; ma il leone non si fermò. Macomber sparò una seconda volta, e tutti videro la pallottola sollevare uno spruzzo di terra oltre il leone trotterellante. Sparò ancora, ricordandosi di abbassare la mira, e tutti udirono il tonfo della pallottola che colpiva, e il leone si mise a galoppare e sparì nell'erba alta prima che lui toccasse la leva dell'otturatore. Macomber restò là con un gran senso di nausea, stringendo tra le mani lo Springfield pronto a sparare, e sua moglie e Robert Wilson erano accanto a lui. Al suo fianco c'erano anche i due portatori di fucile, che baccagliavano tra loro in wakamba. «L'ho colpito» disse Macomber. «L'ho colpito due volte.» «Sì. Una al fianco e una un po' più avanti» disse Wilson senza entusiasmo. I portatori, molto seri, ora tacevano. «Potrebbe averlo ucciso» continuò Wilson. «Dovremo aspettare un po' prima di andare a vedere.» «Cosa intende dire?» «Lasciamo che si sfianchi prima di seguirlo.» «Oh» disse Macomber. «È un gran bel leone» disse Wilson allegramente. «Però si è appiattato in un brutto posto.» «Brutto? Perché?» «Perché non possiamo vederlo finché non gli siamo addosso.» «Oh» disse Macomber. «Andiamo» disse Wilson. «La memsahib può restare qui in macchina. Noi andremo a dare un'occhiata alle tracce di sangue.» «Resta qui, Margot» disse Macomber a sua moglie. Aveva la bocca molto asciutta e gli riusciva difficile parlare. «Perché?» domandò lei, «Lo dice Wilson.» «Noi andiamo a dare un'occhiata» disse Wilson. «Lei rimanga qui. Da qui può vederci ancora meglio.» «Va bene.» Wilson parlò in swahili al conducente, che annuì e disse: «Sì, buana».
Poi scesero la sponda scoscesa e attraversarono il fiume, scavalcando i macigni o girandovi intorno, e si arrampicarono su per l'altra riva, attaccandosi a qualche radice sporgente, e risalirono il fiume finché non ebbero trovato il punto dove stava trottando il leone quando Macomber aveva sparato il primo colpo. Sull'erbetta c'era del sangue nero che i portatori indicarono con qualche filo d'erba, e che spariva dietro gli alberi sulla riva del fiume. «Che si fa?» chiese Macomber. «Non abbiamo molta scelta» disse Wilson. «Non possiamo portare qui la macchina. La sponda è troppo ripida. Aspetteremo che s'irrigidisca un po' e poi andremo dentro a cercarlo, io e lei.» «Non possiamo dar fuoco all'erba?» chiese Macomber. «Troppo verde.» «Non possiamo mandare i battitori?» Wilson gli rivolse un'occhiata indagatrice. «Certo che possiamo» disse, «Ma sarebbe un po' da criminali. Vede, noi sappiamo che il leone è ferito. Fosse sano, si potrebbe fare la battuta: quando sente rumore, scappa via. Ma un leone ferito attacca. Non lo vedi finché non gli sei addosso. È capace di nascondersi, schiacciandosi al suolo, dove non penseresti che potrebbe nascondersi una lepre. In queste condizioni non si possono mandare là dentro i battitori. Qualcuno ne uscirebbe con le ossa rotte.» «E i portatori di fucile?» «Oh, quelli vengono con noi. È il loro shauri. Vede, hanno preso un impegno. Ma non sembrano troppo contenti, eh?» «Non voglio andare là dentro» disse Macomber. Gli era scappata prima che si rendesse conto di averlo detto. «Nemmeno io» disse Wilson molto allegramente. «Ma non c'è altra scelta, davvero.» Poi, come se ci avesse pensato solo allora, guardò Macomber e improvvisamente vide che tremava,e l'espressione penosa dei suo viso. «Non occorre che venga anche lei, naturalmente» disse. «È per questo che m'ingaggiano, sa. Ecco perché sono così caro.» «Vuoi dire che andrebbe là dentro da solo? Perché non lo lasciamo là?» Robert Wilson, che fino a quel momento si era preoccupato esclusivamente del leone e del problema che rappresentava, e che non aveva pensato a Macomber se non per notare che era piuttosto impaurito, ebbe a un tratto l'impressione di aver aperto la porta sbagliata in un albergo e di aver visto una cosa vergognosa. «Come sarebbe a dire?» «Perché non lo lasciamo perdere?» «Vorrebbe farci credere, a tutt'e due, che il leone non è stato colpito?» «No. Facciamola finita.» «Non è finita.» «Perché no?» «In primo luogo, è certo che l'animale sta soffrendo. Secondariamente, potrebbe trovarselo davanti qualcun altro.» «Capisco.» «Ma lei non è tenuto a occuparsene.» «Mi piacerebbe» disse Macomber. «Ho solo fifa, sa.» «Quando ci muoveremo andrò avanti io» disse Wilson «con Kongoni che segue le tracce. Lei si tenga dietro di me e un po' da un lato. È probabile che lo si senta ringhiare. Se lo vediamo, spareremo tutt'e due. Non si preoccupi di nulla. La spalleggio io. Veramente, sa, forse farebbe meglio a non venire. Potrebbe essere molto meglio. Perché non torna dalla memsahib mentre qui me la sbrigo io?» «No, voglio venire.» «Va bene» disse Wilson. «Ma non venga se non vuole. Ora questo è il mio shauri, sa.» «Voglio venire» disse Macomber. Si sedettero a fumare sotto un albero. «Vuole tornare indietro a parlare con la memsahib mentre noi aspettiamo qui?» chiese Wilson. «No.» «Allora farò un salto io per dirle di avere pazienza.» «Bene» disse Macomber.
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
Rimase là seduto, con il sudore che gli colava sotto le braccia, la bocca asciutta, un vuoto nello stomaco, e una gran voglia di trovare il coraggio di dire a Wilson di andare a finire il leone senza di lui. Non poteva sapere che Wilson era furioso per non essersi accorto prima dello stato in cui Macomber si trovava e per non averlo mandato da sua moglie. Mentre stava là seduto arrivò Wilson. «Ho portato il suo cannone» disse. «Tenga. Gli abbiamo dato abbastanza tempo, credo. Forza.» Macomber prese la carabina più grossa e Wilson disse: «Stia dietro di me, a quattro o cinque metri sulla destra, e faccia esattamente come le dico io.» Quindi parlò in swahili ai due portatori di fucile, che erano il ritratto della costernazione. «Andiamo» disse «Potrei avere un sorso d'acqua?» chiese Macomber. Wilson si rivolse al più vecchio dei due portatori, che aveva una bonaccia attaccata alla cintura, e l'uomo la sganciò, ne svitò il tappo e la porse a Macomber, il quale nel prenderla non poté far a meno di notare che sembrava stranamente pesante, mentre al tatto il rivestimento di feltro era ruvido e peloso. La sollevò per bere e guardò davanti a sé la distesa di erba alta sullo sfondo degli alberi con le chiome appiattite. Una brezza spirava verso di loro e l'erba sfiorata dal vento s'increspava dolcemente. Guardò il portatore e vide che aveva paura anche lui.
A meno di trenta metri, in mezzo all'erba, il grosso leone si teneva appiattito contro il suolo. Aveva le orecchie abbassate e il suo unico movimento era un leggero fremito, su e giù, della lunga coda col ciuffo nero. Si era messo sul chi vive appena aveva raggiunto questo nascondiglio e soffriva per la ferita nella pancia, che era piena, e continuava a indebolirsi per quella ai polmoni, che gli faceva salire alla bocca una rada schiuma rossa ogni volta che respirava. I suoi fianchi erano umidi e caldi e le mosche si posavano sulle piccole aperture che i proiettili avevano praticato nella sua pelle fulva, e i suoi occhioni gialli, trasformati in due fessure dall'odio, guardavano diritto davanti a loro, chiudendosi solo quando, col respiro, veniva anche il dolore, e i suoi artigli erano piantati nella terra soffice cotta dal sole. Tutto in lui, dolore, nausea, odio e ogni forza residua, confluiva nell'assoluta concentrazione indispensabile per un attacco. Il leone sentiva gli uomini parlare e aspettava, raccogliendosi tutto in questa preparazione dell'attacco che avrebbe scatenato appena gli uomini fossero entrati nella radura. Quando sentì le voci la sua coda s'irrigidì, muovendosi su e giù, e quando gli uomini misero piede tra l'erba il leone mandò un grugnito cavernoso e attaccò. Kongoni, il vecchio portatore di fucile, che in testa seguiva le tracce di sangue, Wilson che spiava l'erba per cogliere ogni movimento, con la sua grossa carabina pronta a sparare, il secondo portatore che guardava davanti a sé e tendeva l'orecchio, Macomber vicino a Wilson con la carabina spianata, avevano appena mosso qualche passo in mezzo all'erba quando Macomber udì il grugnito cavernoso, soffocato dal sangue, e vide l'erba aprirsi con un fruscio. Dopo di che seppe solo che correva; che correva all'impazzata, terrorizzato, fuori dalla boscaglia, che correva verso il fiume. Udì il ca-ra-uong! della grossa carabina di Wilson, e poi un secondo, assordante cata-uong!, e voltandosi vide il leone, orribile, ormai, con mezza testa che pareva saltata via, il qua le si trascinava verso Wilson ai margini della radura mentre l'uomo dalla faccia rossa manovrava l'otturatore del suo tozzo e brutto schioppo e prendeva attentamente la mira mentre un altro fragoroso ca-ra-uong! usciva dalla bocca della carabina, e la mole gialla, greve, strisciante del leone s'irrigidiva e l'enorme testa mutilata scivolava in avanti e Macomber, solo nella radura dov'era arrivato di corsa, impugnando una carabina carica, mentre due uomini neri e un uomo bianco lo guardavano con disprezzo, seppe che il leone era morto. Avanzò verso Wilson, vergognandosi dell'alta statura che lo esponeva al loro dileggio, e Wilson lo guardò e disse: «Vuole scattare qualche fotografia?» «No» disse. Nessuno ebbe altro da dire finché non raggiunsero la macchina. Poi Wilson avevadetto: «Un gran bel leone. 1 boys lo scuoceranno. Tanto vale star qui all'ombra.»
La moglie di Macomber non lo aveva guardato e lui non aveva guardato lei e si era seduto al suo fianco sul sedile posteriore, mentre Wilson si sedeva davanti. Una volta aveva allungato la mano per prendere, senza guardarla, quella della moglie, e lei l'aveva respinta. Guardando attraverso il fiume verso il punto in cui i portatori di fucile stavano scuoiando il leone, Macomber comprese che sua moglie aveva potuto veder tutto. Mentre stavano là seduti Margot si era sporta in avanti e aveva messo una mano sulla spalla di Wilson. Wilson si era voltato e lei si era allungata verso di lui, protendendosi sopra il sedile basso, e lo aveva baciato sulla bocca. «Ehi, dico» disse Wilson, diventando più rosso del suo ben cotto colore naturale. «Il signor Robert Wilson» disse lei. «Il signor Robert Wilson con la sua bella faccia rossa.» Poi tornò a sedersi al fianco di Macomber e distolse lo sguardo per puntarlo, sull'altra riva del fiume, verso il punto dove giaceva il leone, con le zampe anteriori sollevate, sulle quali spiccavano i tendini e i muscoli bianchi messi a nudo, e con la pancia bianca e gonfia, mentre i neri scarnivano la pelle. Finalmente i portatori arrivarono con la pelle, umida e greve, e salirono dietro con essa, arrotolandola prima di montare, e la macchina parti. Nessuno aveva detto più niente finché non furono di nuovo al campo.
Questa era la storia del leone. Macomber non sapeva come si fosse sentito il leone prima di attaccarli, né durante l'attacco quando la sberla incredibile del 505, con una velocità iniziale di due tonnellate, lo aveva colpito alla bocca, né cosa lo spingesse ad avanzare dopo il colpo, quando il secondo scoppio lacerante gli aveva fiaccato i quarti posteriori e lui aveva continuato a strisciare verso l'oggetto assordante e sterminatore che lo aveva distrutto. Wilson ne sapeva qualcosa e lo esprimeva dicendo solo: «Gran bel leone», ma Macomber non sapeva nemmeno cosa pensasse Wilson della situazione. Non sapeva come la pensasse sua moglie, a parte il fatto che con lui aveva chiuso. Già altre volte sua moglie aveva chiuso con lui, ma la cosa non era mai durata. Macomber era ricchissimo, e assai più ricco sarebbe diventato, e sapeva che sua moglie ormai non lo avrebbe più lasciato. Questa era una delle poche cose che sapeva veramente. Sapeva questo come s'intendeva di motociclette - erano state la sua primissima passione -, di automobili, di caccia all'anitra, di pesca - alla trota, al salmone e d'altura -, della vita sessuale nei libri, molti libri, troppi libri, di tutti gli sport che si praticano su un campo all'aria aperta, dei cani, non molto dei cavalli, di come stare attaccato ai soldi, di quasi tutte le altre cose delle quali il suo mondo si occupava, e del fatto che sua moglie non lo avrebbe abbandonato. Sua moglie era stata una gran bella donna ed era ancora una gran bella donna in Africa, ma non era più una gran bella donna in patria, non abbastanza per poterlo lasciare e trovarsi una sistemazione migliore, e lei lo sapeva e lo sapeva lui. Sua moglie aveva perso l'occasione di lasciarlo e Macomber lo sapeva. Se Macomber fosse stato più in gamba con le donne, forse Margot avrebbe cominciato a temere che lui si trovasse un'altra moglie, giovane e bella; ma anche Margot lo conosceva troppo bene per preoccuparsi di lui. Lui, poi, aveva sempre avuto una grande tolleranza, che sembrava il suo lato più simpatico, se non fosse stato il più sinistro. Tutto sommato erano considerati una coppia relativamente felice, una di quelle di cui spesso si mormora che stanno per dividersi ma che non si dividono mai, e, come diceva la cronaca mondana, stavano aggiungendo più di un pizzico d’avventura alla loro molto invidiata e immortale storia d'amare con un safari in quello che era noto come il Continente Nero finché i Martin Johnson non lo illuminarono sui tanti schermi cinematografici dove davano la caccia al Vecchio Simba, il leone, al bufalo, a Tembo, l'elefante, e inoltre raccoglievano esemplari per il Museo di storia naturale. Quella stessa cronaca mondana aveva detto, almeno tre volte, che i due coniugi "erano ai ferri corti", ed era vero. Ma si erano sempre riappacificati. La loro unione poggiava su solide basi. Margot era troppo bella perché Macomber divorziasse da lei e Macomber aveva troppi soldi perché Margot si decidesse a lasciarlo.
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
Adesso erano le tre del mattino e Francis Macomber, che si era addormentato poco dopo aver smesso di pensare al leone, per poi svegliarsi e riprender sonno, si svegliò improvvisamente, spaventato da un sogno in cui il leone con la testa insanguinata incombeva su di lui, e mentre tendeva l'orecchio per ascoltare i tonfi del suo cuore si accorse che sua moglie non era nell'altra brandina sotto la tenda. Per due ore restò sveglio, a meditare su quell'informazione.Alla fine di questo tempo sua moglie entrò nella tenda, sollevò la zanzariera e si adagiò comodamente sul lettuccio. «Dove sei stata?» chiese Macomber nell'oscurità. .«Ciao» disse lei. «Sei sveglio?» «Dove sei stata?» «Sono andata a prendere una boccata d'aria.» «Si, proprio.» «Cosa vuoi che dica, tesoro?» «Dove sei stata?» «Fuori a prendere una boccata d'aria.» «Adesso lo chiamano così? Una puttana, sei.» «Be', tu sei un vigliacco.» «Va bene» disse lui. «E allora?» «Niente, per quanto mi riguarda. Ma non parliamo, pe1 piacere, caro, perché ho un gran sonno.» «Tu mi credi capace di resistere a tutto.» «So che lo farai, tesoro.» «Be', non è così.» «Per piacere, caro, non parliamo Ho tanto sonno.» «Doveva essere finita. Hai promesso che sarebbe finita.» «Be', non è finita» disse soavemente lei. «Avevi detto che sarebbe finita, se facevamo questo viaggio. Avevi promesso.» «Sì, caro. E dicevo sul serio. Ma tu ieri hai rovinato tutto. Non è il caso di parlarne, vero?» «Non hai aspettato molto per approfittarne, eh?» «Non parliamo, per piacere. Sono così stanca, tesoro.» «Io voglio parlare.» «Allora non badare a me, perché io voglio dormire.» E così fece.
Per fare colazione si misero tutti a tavola prima che spuntasse il giorno e Francis Macomber scoprì che di tutti gli uomini che aveva odiato, ed erano molti, Robert Wilson era quello che odiava di più. «Dormito bene?» chiese Wilson con la sua voce gutturale, riempiendosi la pipa, «E lei?» «Ottimamente» disse il cacciatore bianco. Bastardo, pensò Macomber, bastardo insolente. E così lo ha svegliato quando è tornata in tenda, pensò Wilson, guardandoli tutt'e due con i suoi occhi freddi e inespressivi. Be', perché non la tiene al suo posto? Cosa crede che sia, un maledetto santo di gesso? Che la tenga al suo posto. E' colpa sua. «Crede che troveremo dei bufali?» chiese Margot, respingendo un piatto di albicocche. «Probabile» disse Wilson e le sorrise. «Perché non resta al campo, lei?» «Nemmeno per idea» gli disse lei. «Perché non le ordina di restare al campo?» disse Wilson a Macomber. «Glielo ordini lei» disse Macomber, freddamente. «Non c'è da ordinare niente a nessuno, e finiscila» rivolta a Macomber «con queste sciocchezze, Francis» disse Margot molto amabilmente. «È pronto a partire?» chiese Macomber. «Quando vuole» gli disse Wilson. «Vuole che venga anche la memsahib?» «Che io lo voglia o no, cambia qualcosa?» Al diavolo, pensò Robert Wilson. All’inferno lui e tutta la compagnia. Allora è così che deve andare. Be', allora così andrà. «Non cambia niente» disse. «E sicuro che non preferirebbe restare lei qui al campo con mia moglie mentre io vado a caccia di bufali?» chiese Macomber. «Impossibile» disse Wilson. «Io non direi sciocchezze se fossi in lei.» «Io non dico sciocchezze. Sono semplicemente disgustato.» «Brutta parola, disgustato.» «Francis, per piacere, vuoi sforzarti di parlare in modo ragionevole?» disse sua moglie. «Parlo fin troppo ragionevolmente» disse Macomber. «Avete mai mangiato della roba più schifosa?» «Qualcosa che non va nella roba da mangiare?» chiese Wilson tranquillamente. «Non più che in tutto il resto.» «Animo, ragazzo» disse Wilson a bassissima voce. «C'è un boy che serve a tavola e capisce un po' d'inglese.» «Vada al diavolo.» Wilson si alzò e tirando boccate di fumo dalla pipa si allontanò, per dire qualche parola in swahili a uno dei portatori di fucile che, in piedi, lo stava aspettando. Macomber e sua moglie rimasero seduti. Lui fissava la sua tazza di caffè. «Se fai una scenata ti lascio, tesoro» disse Margot a bassa voce. «No, non è vero.» «Provaci e vedrai.» «Non è vero che mi lasci.» «No» disse lei. «Io non ti lascio, ma tu devi comportarti bene.» «Io? Che modo di parlare. Comportarmi bene.» «Sì. Comportarti bene.» «Perché non cerchi tu di comportarti bene?» «È da tanto che ci provo. Da tanto di quel tempo.» Odio quel porco dalla faccia rossa» disse Macomber. «Mi fa schifo solo a vederlo.» «Veramente è molto carino.» «Oh, piantala» disse Macomber, quasi gridando. Proprio allora la macchina arrivò e sifermò davanti alla tenda della mensa e l'autista e i due portatori di fucile misero piede a terra. Wilson si avvicinò e guardò i due coniugi seduti a tavola. «Andiamo a tirare qualche colpo?» domandò. «Sì» disse Macomber, alzandosi in piedi. «Sì.» «Meglio portarsi un golf. In macchina farà fresco» disse Wilson. «Vado a prendere la mia giubba di cuoio» disse Margot. «Ci pensa il boy» le disse Wilson. Lui salì davanti con l'autista e Francis Macomber e sua moglie sedettero, senza parlare, sul sedile posteriore. Speriamo che a questo maledetto stupido non venga l'idea di spararmi una fucilata nella schiena, pensò Wilson tra sé. Che seccatura sono le donne nei safari.
La macchina scendeva sferragliando per attraversare il fiume a un guado sassoso nella grigia luce del mattino e poi salì, impennandosi su per la sponda scoscesa, dove Wilson il giorno prima aveva ordinato di aprire una strada per poter raggiungere il terreno ondulato e boscoso sull'altra riva, che sembrava quello di un parco. Era un bel mattino, pensò Wilson. La rugiada appesantiva il fogliame, e quando le ruote passavano sull'erba tra i cespugli bassi si sentiva l'odore delle fronde schiacciate. Era un odore che sembrava di verbena, e a Wilson piaceva quest'odore mattutino della rugiada e delle felci schiacciate, e l'aspetto dei tronchi d'albero neri nella foschia del primo mattino, mentre la macchina procedeva su quel terreno poco battuto, molto simile a quello di un parco. Wilson si era già dimenticato dei passeggeri sul sedile posteriore e ora stava pensando ai bufali. I bufali che cercava lui passavano la giornata nel folto di un acquitrino dov'era impossibile sparare, ma di notte pascolavano in un pezzo di terra scoperto, e se Wilson fosse riuscito a frapporsi con la macchina tra loro e la palude Macomber avrebbe avuto buone probabilità di sorprenderli. Con Macomber non voleva cacciare il bufalo nel folto. Con Macomber non avrebbe voluto cacciare né il bufalo né altro, ma Wilson era un cacciatore di professione e ai suoi tempi era andato a caccia con certi tipi davvero eccezionali. Se oggi avessero preso il bufalo sarebbe rimasto solo il rinoceronte, e quel povero diavolo avrebbe finito il suo gioco pericoloso e forse le cose si sarebbero aggiustate. Wilson non avrebbe più visto quella donna e Macomber avrebbe ingoiato anche questa. Chissà quante doveva averne già mandate giù, a giudicare dalle apparenze. Poveraccio. Doveva aver trovato un sistema per passarci sopra. Be', era tutta colpa sua, tutta colpa di quel povero bastardo.
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
Lui, Robert Wilson, si portava nei safari una branda a due piazze per accogliervi qualunque dono del cielo potesse capitargli di ricevere. Aveva cacciato per una certa clientela, un ambiente internazionale di gente allegra che voleva divertirsi, dove alle donne non sembrava di avere speso bene i propri soldi se non avevano diviso quella branda col cacciatore bianco. Wilson le disprezzava quando era lontano da loro, anche se di tanto in tanto qualcuna gli piaceva, ma era con loro che si guadagnava la vita; e i loro standard erano anche i suoi, fino a quando erano loro a pagarlo. Erano i suoi standard in tutto tranne che nella caccia. Wilson aveva i suoi standard nella caccia e loro potevano esserne all'altezza o trovarsi qualcun altro che cacciasse per loro. Wilson sapeva anche che per questo era rispettato da tutti. Ma quel Macomber era proprio un bel tipo. Accidenti se lo era. E la moglie? Be', la moglie... Sì, la moglie. Uhm, la moglie... Be', quello per lui era un capitolo chiuso. Si voltò a guardarli. Macomber sedeva ingrugnato e furente. Margot lo guardava sorridendo. Oggi sembrava più giovane, più fresca e più innocente, e non così professionalmente bella. Cosa c'è nel suo cuore lo sa Iddio, pensò Wilson. Non avevano parlato molto quella notte. Tutto sommato, vederla era un piacere. La macchina si arrampicò su una collinetta e proseguì tra gli alberi e poi sbucò in una radura erbosa che sembrava una prateria e si tenne al riparo degli alberi lungo il bordo, con l'autista che andava piano e Wilson che perlustrava attentamente la prateria e tutto il suo margine opposto. Wilson fermò la macchina e studiò la radura col binocolo. Poi segnalò all'autista di proseguire e la macchina riprese ad avanzare lentamente, con l'autista che schivava le buche dei facoceri e girava intorno ai castelli di fango costruiti dalle formiche. Poi, mentre guardava verso la radura, a un tratto Wilson si voltò e disse: «Perdio, eccoli là!» E guardando dove indicava lui, mentre la macchina scattava in avanti e Wilson parlava frettolosamente in swahili al conducente, Macomber vide tre enormi bestie nere che sembravano quasi cilindriche nella loro allungata pesantezza, simile a grossi carri cisterna neri, che passavano al galoppo lungo il margine opposto della prateria. Era uno strano galoppo, con il collo e il corpo rigido, e Macomber poteva scorgere le grandi corna nere puntate verso l'alto che avevano sulla testa, mentre galoppavano con la testa protesa; una testa che non si muoveva. «Sono tre vecchi maschi» disse Wilson. «Isoliamoli prima che raggiungano la palude.» La macchina viaggiava a tutta birra attraverso la radura, a più di settanta chilometri l'ora, e, mentre Macomber guardava, i bufali continuarono a ingrandirsi fino a permettergli di vedere la figura grigia, rognosa, spelacchiata di un maschio colossale, e come il collo fosse in lui tutt'uno con le spalle, e il nero lucido delle sue corna mentre galoppava un po' discosto, dietro gli altri scaglionati in fila indiana che tenevano quel passo pesante e regolare; e poi, mentre la macchina sbandava come se fosse uscita di strada, si avvicinarono, e lui poté vedere la pesante immensità del bufalo, e la polvere sul suo manto spelacchiato, la grossa protuberanza tra le corna e il muso proteso con le froge dilatate, e stava alzando la carabina quando Wilson urlò: «Non dalla macchina, idiota!» e non aveva paura, solo odio per Wilson, mentre i freni si bloccavano e la macchina slittava, affondando di traverso nel terreno fin quasi a fermarsi, e Wilson usci da una parte e lui dall'altra, inciampando quando toccò col piede quella terra immobile e sfuggente, e poi stava sparando al bufalo che si allontanava, udendo il tonfo dei protettili che lo colpivano, scaricandogli addosso la carabina mentre quello, imperterrito, continuava ad allontanarsi, ricordando finalmente di mirare più avanti, alla spalla, e mentre trafficava per ricaricare vide che il bufalo era a terra. In ginocchio, scuoteva la testa, e quando vide gli altri due sempre al galoppo Macomber sparò al primo e lo colpì. Sparò di nuovo e mancò il bersaglio, e poi udì il ca-ra-uong di Wilson che sparava e vide il primo bufalo scivolare in avanti, sul naso. «L'altro» disse Wilson. «Questo si chiama sparare!» Ma l'altro bufalo continuava a galoppare, con la solita andatura regolare, e Macomber lo mancò, sollevando uno spruzzo di terra, e Wilson lo mancò, nella polvere che si alzava dalla radura formando un nuvolone, e Wilson urlò: «Andiamo. E troppo lontano!» e lo prese per un braccio e risalirono in macchina, aggrappandosi ai lati del veicolo ondeggiante e filando come razzi sul terreno accidentato, portandosi alle terga del bufalo che continuava a correre in linea retta e con il collo teso, in quel suo galoppo pesante e regolare. Erano dietro di lui e Macomber caricava la carabina, seminando cartucce sul terreno, inceppandola, sbloccandola, poi frano quasi alla stessa altezza del bufalo quando Wilson urlò «Ferma», e la macchina sbandò fin quasi a capottare e Macomber cadde in piedi davanti al veicolo, tirò la leva dell'otturatore e sparò a quel dorso nero bombato e galoppante mirando più avanti che poteva, mirò e sparò di nuovo, e ancora, e ancora, e le pallottole, tutte andate a segno, non ebbero, sul bufalo alcun effetto visibile. Poi sparò Wilson, con un boato assordante, e lui vide l'animale barcollare. Macomber sparò ancora, mirando attentamente, e il bufalo crollò, sulle ginocchia. «Molto bene» disse Wilson. «Ottimo lavoro. Li abbiamo beccati tutt'e tre.» Macomber provò un senso di esultanza confinante con l'ebbrezza. «Quanti colpi ha sparato?» chiese. «Tre soli» disse Wilson. «Il primo bufalo lo ha ammazzato lei. Il più grosso. Io l'ho aiutata a finire gli altri due. Non volevo che riuscissero a nascondersi da qualche parte. Ma li ha ammazzati lei. Ho solo chiuso i conti. Lei spara molto bene.» «Torniamo alla macchina» disse Macomber. «Ho bisogno di bere.» «Prima dobbiamo finire quel bufalo» gli disse Wilson. Il bufalo era in ginocchio e scuoteva furiosamente la testa e, quando mossero verso di lui, muggì sonoramente tutta la sua rabbia guardandoli con l'occhio porcino. «Badi che non si alzi» disse Wilson. Poi: «Si metta un po' di fianco e miri al collo, appena dietro l'orecchio». Macomber mirò attentamente ai centro dell'enorme collo sussultante e inferocito e sparò. Allo sparo la testa crollò in avanti. «Così va bene» disse Wilson. «Lo ha preso alla spina dorsale. Che razza di bestioni, eh?» «Andiamo a bere» disse Macomber. Non si era mai sentito così bene in vita sua. La moglie di Macomber, seduta in macchina, era pallidissima. «Sei stato magnifico, tesoro» disse a Macomber. «Che gincana.» «È stata dura?» domandò Wilson. «Spaventoso. Non ho mai avuto più paura in vita mia.» «Beviamo» disse Macomber. «Certamente» disse Wilson. «La dia alla memsahib.» Lei bevve dalla fiasca l’whisky puro e mentre deglutiva fu scossa da un piccolo brivido. Porse la fiasca a Macomber, che la porse a Wilson. «È stato spaventosamente elettrizzante» disse lei. «Mi è venuto un tremendo mal di testa. Però non sapevo che foste autorizzati a sparargli dalle macchine.» «Nessuno ha sparato dalle macchine» disse freddamente Wilson. «A inseguirli con le macchine, volevo dire.» «Di regola non si fa» disse Wilson. «Però mi è sembrato abbastanza sportivo, già che c'eravamo. Si corrono più rischi a sfrecciare così attraverso la prateria, piena di buche e una cosa e l'altra, che a cacciare a piedi. Il bufalo poteva caricarci ogni volta che gii abbiamo sparato, se voleva. Gli abbiamo dato tutte le possibilità. Non lo direi a nessuno, però. È illegale, se ci tiene a saperlo.» «Io l'ho trovato molto sleale» disse Margot. «Cacciare con la macchina quei bestioni inermi.» «Ah sì?» disse Wilson. «Cosa succederebbe se a Nairobi lo venissero a sapere?» «Anzitutto perderei la mia licenza. Poi ci sarebbero altre seccature» disse Wilson, bevendo un sorso dalla fiasca. «Rimarrei disoccupato.» «Davvero?» «Sì, davvero.» «Beh» disse Macomber, e sorrise per la prima volta in tutto il giorno. «Ora è nelle sue mani.» «Hai un modo cosi carino di dire le cose, Francis» disse Margot Macomber. Wilson li guardò entrambi. Se uno stupido sposa una puttana, stava pensando, come diavolo saranno i loro figli? Quello che disse fu: «Abbiamo perso un portatore. Ve ne siete accorti?». «Dio mio, no» disse Macomber. «Eccolo che arriva» disse Wilson. «Sano e salvo. Dev'essere caduto dalla macchina quando abbiamo lasciato il primo bufalo.» Quello che si stava avvicinando era il portatore di mezza età, zoppicante sotto il berretto di maglia, la sahariana, i calzoncini corti e i sandali di gomma, cupo in volto e disgustato. Quando arrivò si rivolse a Wilson in swahili e tutti notarono il cambiamento sulla faccia del cacciatore bianco. «Cosa dice?» chiese Margot. «Dice che il primo bufalo si è rialzato ed è sparito nella boscaglia» disse Wilson con voce inespressiva. «Oh» disse Macomber, guardandolo con aria assente. «Allora sarà come col leone» disse Margot, pregustando la scena. «Non sarà affatto come col leone» le disse Wilson. «Vuole un altro sorso, Macomber?» «Grazie, sì» disse Macomber. Si aspettava di provare nuovamente quello che aveva provato per il leone, invece non fu così. Per la prima volta in vita sua si sentiva assolutamene te impavido. Invece di aver paura, provava un chiaro senso di esultanza. «Dovremo andare a dare un'occhiata al secondo bufalo» disse Wilson. «Dirò all'autista di mettere la macchina all'ombra.» «Cosa volete fare?» chiese Margaret Macomber. «Dare un'occhiata al bufalo» disse Wilson. «Vengo anch'io.» «Venga pure.»
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
A piedi, tutt'e tre, raggiunsero il punto in cui il secondo bufalo formava una massa nera in mezzo alla radura, la testa allungata sull'erba, le corna massicce divaricate. «Ha una testa bellissima» disse Wilson. «Tra un corno e l'altro sarà più di un metro e venti.» Macomber lo guardava divertito. «Mi fa orrore» disse Margot. «Non possiamo andare all'ombra?» «Certo» disse Wilson. «Guardi» disse a Macomber, e puntò il dito. «Vede quella macchia?» «Sì.» «È lì che si è inoltrato il primo bufalo. Il portatore ha detto che quando lui è caduto dalla macchina il bufalo era a terra. Guardava noi che andavamo come il vento e gli altri due bufali al galoppo. Quando si è voltato il bufalo era in piedi e lo guardava. Il portatore se l'è data a gambe e il bufalo è scomparso lentamente nella boscaglia.» «Possiamo andarlo a cercare, adesso?» chiese Macomber con impazienza. Wilson gli rivolse un'occhiata indagatrice. Mi venga un colpo se non è un tipo strano» pensò. Ieri se la fa addosso dai la fifa e oggi non vede l'ora di menar le mani. «No, gli daremo un po' di tempo.» «Per piacere, andiamo all'ombra» disse Margot. Il suo volto era pallido e lei aveva un'aria sofferente. Si diressero verso il punto dove si trovava l'automobile sotto un albero isolato dalla grande chioma, e vi salirono. «Può darsi che sia morto là dentro» osservò Wilson. «Tra un po' andremo a dare un'occhiata.» Macomber provava una sfrenata, irragionevole felicità che non aveva mai provato prima. «Perdio, che caccia» disse. «Non ho mai provato una sensazione simile. Non è stato magnifico, Margot?» «Che disgusto.» «Come?» «Che disgusto» disse astiosamente lei. «Che schifo.» «Sa, credo che non avrò più paura di niente» disse Macomber a Wilson. «Mi è successo qualcosa dopo la prima volta che abbiamo visto il bufalo e ci siamo messi a inseguirlo. Come una diga che si spacca. Ero al colmo dell'eccitazione.» «Ti depura il fegato» disse Wilson. «Certe volte alla gente succedono delle cose maledettamente strane.» Il viso di Macomber era raggiante. «Mi è davvero successo qualcosa, sa» disse. «Mi sento un altro.»
Sua moglie non disse nulla e lo guardò in uno strano modo. Era seduta dietro, in fondo, mentre Macomber si sporgeva in avanti per parlare con Wilson che rispondendo si voltava a mezzo sopra lo schienale del sedile anteriore. «Vorrei provare con un altro leone, sa» disse Macomber. «Ormai non mi fanno più paura, veramente. Dopo tutto, cosa possono farti?» «Giusto» disse Wilson. «Il peggio che ti possa capitare è che qualcuno ti ammazzi. Come dice Shakespeare. Bellissime parole. Vediamo se riesco a ricordarmele. Oh, bellissime. Una volta me le ripetevo sempre. Vediamo. "In fede mia, non m'importa; un uomo non può morire che una volta; una morte dobbiamo a Dio e vada come vuole, chi muore quest'anno non dovrà farlo quello successivo. Bello, eh?» Era imbarazzatissimo per aver tirato fuori quella che era un po' la sua regola di vita, ma aveva già visto degli uomini diventare maggiorenni ed era sempre una cosa che lo riempiva di commozione. Non era come se avessero compiuto semplicemente il loro ventunesimo anno. C'era voluta una caccia stranamente fortunata, un improvviso passaggio all'azione senza la possibilità di angustiarsi prima del tempo, per farlo succedere in Macomber, ma comunque fosse successo era sicuramente successo. Guarda quel tipo, adesso, pensò Wilson. È che alcuni di loro rimangono per tanto tempo bambini. Certe volte per tutta la vita. A cinquantanni, sembrano bambini anche nell'aspetto. I grandi uomini-bambini americani. Gente maledettamente strana. Ma ora questo Macomber gli piaceva. Un individuo maledettamente strano. Che avesse anche finitodi farsi fare le corna da sua moglie? Be', quella sarebbe stata una cosa bellissima. Una cosa maledettamente buona. Forse quel poveraccio aveva sempre avuto paura, per tutta la vita. Chissà com'era cominciata quella storia. Ma adesso era finita. Non aveva avuto il tempo di farsi spaventare dal bufalo. Questo e l'arrabbiatura. E la macchina. Le macchine rendevano la cosa familiare. Adesso era un maledetto attaccabrighe. In guerra Wilson aveva visto succedere le stesse cose. Cambiavano più che se avessero perso la verginità. La paura se ne andava come dopo un'operazione. Al suo posto cresceva un'altra cosa. La cosa più importante che avesse un uomo. Che ne faceva un uomo. Anche le donne lo sapevano. Più nessuna paura.
Dall'angolo più lontano dei sedile Margaret Macomber li guardava tutt'e due. Wilson non era cambiato. Vedeva Wilson come lo aveva visto il giorno prima, quando per la prima volta si era accorta di quale fosse il suo grande talento. Ma vedeva che qualcosa di cambiato ora c'era in Francis Macomber. «Prova anche lei questa felicità per le cose che devono succedere?» chiese Macomber, continuando a esplorare la sua nuova ricchezza. «Non se ne dovrebbe parlare» disse Wilson, guardandolo in faccia, «È molto più elegante dire che si ha paura. Badi, anche lei avrà paura, chissà quante volte.» «Ma la prova anche lei questa felicità per l'imminenza dell'azione?» «Sì» disse Wilson. «È così. Non parli troppo di tutto questo. Altrimenti finisce tutto in chiacchiere. A parlarne troppo non si apprezza più nulla.» «State dicendo un mucchio di sciocchezze» disse Margot, «Solo perché avete inseguito con la macchina alcuni animali inermi parlate come degli eroi.» «Scusi» disse Wilson. «Ho chiacchierato troppo.» Già comincia a preoccuparsi, pensò. «Se non sai di che parliamo perché t'immischi?» chiese Macomber a sua moglie. «Come sei diventato coraggioso, tutt'a un tratto» disse sua moglie in tono sprezzante, ma il suo disprezzo sembrava titubante. Aveva una gran paura di qualcosa. Macomber rise, una risata sincera e molto naturale. «Lo sai» disse. «È proprio vero.» «Non è un po' tardi?» disse Margot con asprezza. Perché in passato, per molti anni, aveva fatto del suo meglio, e i problemi che avevano adesso non erano colpa di nessuno. «Non per me» disse Macomber. Margot non disse nulla ma tornò a rincantucciarsi nell'angolo del sedile. «Crede che gli abbiamo lasciato abbastanza tempo?» chiese allegramente Macomber a Wilson. «Potremmo dare un'occhiata» disse Wilson. «Le sono avanzate delle munizioni?» «Ne ha un po' il portatore.» Wilson gridò qualcosa in swahili e il portatore più vecchio, che stava scuoiando una delle teste, si raddrizzò, trasse di tasca una scatola di cartucce e le portò a Macomber, che si riempì il caricatore e mise in saccoccia quelle che restavano. «Tanto vale che prenda lo Springfield» disse Wilson. «Ormai c'è abituato. Lasceremo il Mannlicher in macchina con la memsahib. Il portatore può portarle la carabina più pesante. lo ho questo maledetto cannone. Ora lasci che le spieghi.» Aveva tenuto questo per ultimo perché non voleva impensierirlo. «Quando il bufalo carica, carica a testa alta e in linea retta. La gobba delle corna gli ripara il cervello dai colpi. L'unico sistema per colpirlo è attraverso il naso. L'altro punto buono è il petto o, se sei di fianco, il collo o le spalle. Colpiti una volta, sono duri a morire. Non si faccia venire strane idee. Tenti il colpo più semplice che c'è. Ormai hanno finito di scuoiare quella testa. Vogliamo metterci in movimento?» Chilamò i portatori, che arrivarono pulendosi le mani, e il più vecchio sali dietro. «Prendo solo Kongoni» disse Wilson. «L'altro può occuparsi di tenere lontani gli avvoltoi.»
Mentre la macchina tagliava lentamente la radura verso l'isolai di alberi irsuti che formavano una lingua di fogliame lungo un corso d'acqua inaridito che incideva il valloncello, Macomber si sentiva il cuore in gola e la sua bocca era di nuovo asciutta, ma per l'eccitazione, non per la paura. «Ecco il punto dov'è entrato» disse Wilson. Poi, in swahili, al portatore: «Segui le tracce di sangue». La macchina era parallela al tratto di boscaglia. Macomber, Wilson e il portatore scesero a terra. Macomber, voltandosi indietro, vide sua moglie, col fucile al fianco, che lo guardava. La salutò con la mano e lei non rispose al suo cenno. Davanti a loro la boscaglia era fittissima e il terreno era secco. Il portatore di mezza età sudava copiosamente e Wilson si era calato il cappello sugli occhi e mostrava il collo rosso proprio davanti agli occhi di Macomber. A un tratto il portatore disse a Wilson qualcosa in swahili e corse avanti. «È là dentro, morto» disse Wilson. «Bel lavoro», e si voltò per stringere la mano di Macomber, e mentre si davano la mano, scambiandosi un sorriso, il portatore lanciò un grido selvaggio ed essi lo videro uscire dalla boscaglia di traverso, veloce come un granchio, e il bufalo che veniva con le froge dilatate, la bocca serrata, il sangue gocciolante, il testone proteso in avanti, che veniva alla carica, con gli occhietti porcini iniettati di sangue mentre li guardava. Wilson, che era in testa, s'inginocchiò sparando, e Macomber, mentre sparava, senza udire il rumore dello sparo nel rombo della carabina di Wilson, vide dei frammenti che sembravano di ardesia saltar via dall'enorme gobba delle corna, e la testa sussultare, poi sparò ancora contro le froge dilatate e vide le corna che tornavano a ballare e altre schegge che volavano, e ormai non vedeva più Wilson, e mirando con cura sparò ancora, con la massa enorme del bufalo quasi su di lui e la sua carabina quasi alla stessa altezza della testa che arrivava, col muso proteso, e vide gli occhietti cattivi, e poi la testa cominciò ad abbassarsi e lui sentì un lampo improvviso, incandescente, accecante, scoppiargli nella testa, e questo fu tutto quello che sentì. Wilson si era gettato da una parte per piazzare un colpo alta spalla. Macomber era rimasto fermo e aveva mirato al naso, sparando ogni volta alto d'un pelo e colpendo le rosse corna, sbriciolandole e scheggiandole come se avesse colpito un tetto di ardesia, e la signora Macomber, dalla macchina, aveva sparato al bufalo col Mannlicher 6, 5 quando sembrava che stesse per sbudellare Macomber e aveva colpito il marito alla base del cranio, quattro o cinque centimetri sopra il colletto e un po' lateralmente.
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber
Ora Francis Macomber giaceva, a faccia in giù, a meno di due metri da dove il bufalo giaceva sul fianco, e sua moglie era inginocchiata sopra di lui con Wilson accanto a lei. «Non lo girerei» disse Wilson. La donna piangeva istericamente. «Io tornerei alla macchina» disse Wilson. «La carabina dov'è?» Lei scosse la testa, col viso contorto. Il portatore raccattò la carabina. «Lasciala come sta» disse Wilson. Poi: «Va’ a prendere Abdulla, in modo che possa testimoniare come si è svolto l'incidente». S'inginocchiò, trasse di tasca un fazzoletto e lo stese sopra i capelli a spazzola della testa di Francis Macomber, là dov'era. Il sangue imbeveva la terra soffice e secca. Wilson si raddrizzò e vide il bufalo di fianco a lui, con le zampe rigide, e il ventre spelacchiato brulicante di zecche. "Gran bella bestia" registrò automaticamente il suo cervello. "Un buon metro e venti, o più. Forse più." Chiamò l’autista e gli disse di stendere una coperta sopra il corpo e di aspettare lì. Poi raggiunse la macchina dove la donna, in un angolo, piangeva. «Proprio un bel lavoretto» disse con voce monotona: «Stavolta l'avrebbe lasciata.» «La smetta!» disse lei. «È stato un incidente, si capisce» disse lui. «Lo so.» «La smetta» disse lei. «Non si preoccupi» disse lui. «Ci sarà qualche brutto momento, ma farò fare delle fotografie che saranno molto utili all'inchiesta Abbiamo anche la testimonianza dei portatori e dell'autista. Andrà tutto bene.» «La smetta» disse lei. «Ci sono un mucchio di cose da fare» disse lui. «E dovrò mandare un camion giù al lago per far venire un aereo che ci porti a Nairobi tutt'e tre. Perché non lo ha avvelenato? In Inghilterra si fa così.» «La smetta. La smetta. La smetta» gridò la donna. Wilson la guardò con i suoi occhi azzurri e inespressivi. «Ho finito» disse. «Ero solo un po' arrabbiato. Aveva cominciato a piacermi, suo marito.» «Oh, la smetta, per piacere» disse lei. «Per piacere, per piacere, la smetta.» «Così va meglio» disse Wilson. «Meglio chiedere le cose per piacere. Ecco, smetto subito.»
L'Africa di Hemingway: La breve vita felice di Francis Macomber


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