Questo post nasce dopo che Elisa di TripVillage, in occasione del premio Liebster, mi ha chiesto quale fosse il viaggio più emozionante che ho fatto. Ho risposto senza pensarci due volte: il viaggio in Kenya. Non il Kenya delle spiagge bianche e del mare cristallino, ma quello dei chilometri di strada sterrata nella polvere rossa che ti si attacca addosso, dei villaggi composti da 4 capanne di sterco e tetto di paglia, dei canti gutturali e dei salti dei Masai, delle distese infinite dove il cielo e la terra si uniscono all’orizzonte e degli animali che all’improvviso spuntano fuori dal bush.
Lo scorso anno, dopo dieci anni, finalmente sono riuscita a tornare in Africa, l’Africa australe, tanto lontana, tanto costosa, ma cosi vicina a chi riesce a sentirla dentro: un ritorno alle origini che scatena un forte senso di appartenenza ad una terra nuova agli occhi, ma non al cuore.
Era infatti il lontano 2003 quando, da turista privilegiata, andai in Zimbabwe, ospite di una famiglia italiana che ha vissuto a Bulawayo per più di 40 anni: un viaggio a 360°, dentro e fuori di me, che ha fissato il punto di rottura con quella che era la mia vita fino ad allora e di cui purtroppo conservo pochissime foto sbiadite.
Un’esperienza segnata da un forte senso di protezione nei nostri confronti delle persone che ci ospitavano, che spesso ho avvertito come soffocante, ma che era giustificato dalla situazione d’instabilità del Paese; dalle storie di aggressione in casa e di rivendicazione dei diritti su quelle terre; dalla tensione percepibile lungo le strade di Harare e dal conseguente distacco dalla popolazione locale, la stessa gente che, lontano dalle città, ci salutava col pollice alzato o improvvisava balletti per darci il benvenuto.
Un’esperienza carica anche di serenità e di stupore: i pensieri che scorrevano veloci tra una biro e un diario mentre un tramonto rosa-arancio esplodeva sul lago Kariba; lo sbuffo di un ippopotamo in lontananza era l’unico rumore udibile a riportarmi alla realtà, ma bastava un nuovo sguardo all’orizzonte a rendere uguali il presente al più bello dei pensieri: sentirsi felici e in pace con il mondo – quando l’unico contatto con il resto del mondo era una radiolina a onde corte - e convincersi che quella sensazione, in quel posto, sarebbe potuta durare un attimo lungo un’eternità.Lo Zimbabwe è stato anche l’emozione di un volo sulla savana con un bielica a nove posti e riuscire a vedere dal cielo le striature delle zebre in corsa sotto di noi; la prima volta in cui la sagoma scura di una coppia di giraffe ha preso forma davanti ai miei occhi, sbucando all’improvviso dal bush a decine di metri di distanza: passeggiavano dondolanti al centro della strada, la loro testa oltre gli alberi sui lati, lente ed eleganti. Ricordo ancora che è stato in quel momento che ho capito che è la giraffa l’animale più bello che c’è, mentre i miei compagni di viaggio erano a fare da palo alla zia settantenne che faceva pipì nascosta dietro al nostro pick-up (mi raccomando: non si scende mai dalla macchina durante un safari, eh!), la stessa zia che è stata morsa da una scimmia ad un polpaccio mentre ci dirigevamo verso l’uscita dal parco delle Victoria Falls, una piccola scimmietta urlante, indispettita per non essere riuscita a racimolare nemmeno una nocciolina da un gruppo di turisti (altra raccomandazione: non dare da mangiare agli animali! Vedete che succede?). Ho ancora davanti agli occhi i quattro buchi nella carne e il sangue che in due secondi ha iniziato a scendere giù a fiumi: abbiamo passato il resto della giornata a cercare un medico che le facesse un vaccino antirabbico e non è stato per niente semplice. Fatto sta che l’immagine della scimmia che esce di corsa dal cespuglio, addenta il primo polpaccio che le capita a tiro e scappa, all’epoca mi faceva un po’ sorridere (si, sono un tantinello stronza e la zia invece molto sfigata), mentre ora mi fa osservare diffidente questi animaletti dispettosi.
Il Kenya ha rispolverato e amplificato tutte le sensazioni vissute dieci anni prima. Il Kenya che ha colpito gli occhi di Mister con la povertà cruda e reale delle baracche tirate su nel fango che già all’uscita dall’aeroporto di Mombasa ti si palesano davanti; dei sorrisi caldi e bianchi; dei bambini urlanti di allegria che ti chiedono una caramella e sarebbero capaci di seguirti per chilometri, quei bambini che prima sono due e dopo due secondi sono cento e ti rendi conto che la valigia piena di vestiti e quaderni che ti sei portato dietro è una goccia nell’oceano e allora inizi a sfilarti le cose che indossi per godere di un altro sorriso.
E ancora, il Kenya della sosta in una locanda per andare in bagno e scoprire che il bagno altro non è che un buco nella terra dietro una porta di legno; del fermarsi ogni tre per due a dare una mano a cambiare una ruota o aggiustare una jeep perché ci si aiuta sempre: domani potrebbe capitare lo stesso a te; ed infatti l’ultimo giorno è toccato a noi rimanere impantanati nel fango e a scivolare sul fianco del nostro van e ad essere tirati fuori dalle stesse persone rimaste a piedi qualche giorno prima.
Meravigliarsi stupidamente del fatto che anche in Africa piove.
Poi ho scoperto anche un’altra faccia del Kenya, quella dell’essere accolta al resort dagli altri italiani quasi con un eroe perché TU sei sopravvissuto a ben 5 giorni di safari, mentre ti guardi attorno e ti chiedi perché sei finito in quel posto – in mezzo a persone che avevano prenotato una vacanza a Sharm ma purtroppo non hanno potuto andarci a causa della rivoluzione - e l’unica cosa che vorresti è tornare nella savana e rifare tutto da capo. Quindi inizi ad avventurarti fuori e scopri anche il Kenya delle contrattazioni infinite per una corsa in tuk tuk; compri un braccialetto di terza mano a 5 euro e lo consideri un vero affare perché di quel tipo non se ne trovano tanti in giro; scopri che, tra milioni di orfani veri, esistono degli orfanotrofi improvvisati per attrarre i turisti; che dopo due chiacchiere con qualcuno ti viene chiesto se vuoi comprare la qualunque e, se rispondi no, ti vengono chiesti comunque dei soldi. Realizzi che la sensazione di sentirsi un bancomat ambulante ti accompagnerà per il resto del tempo; che se vai in un locale è normale che uomini e donne europei di una certa età siano accompagnati da ragazzini e ragazzine del posto ed è altrettanto normale che, nonostante ci sia tu li, una ragazza del posto pretenda di ballare con il tuo uomo e voglia salire con voi sullo stesso tuk tuk fino al prossimo locale; torni al resort in tre in sella ad un bajaj alle quattro di mattina e ti rendi conto che è arrivato già il momento di rientrare a casa.
Quello che rimane è la felicità di aver vissuto quell’esperienza finalmente senza troppi filtri, mista all’amara sensazione che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in una parte di quello che ho visto, che non c’entra nulla con l’Africa in se, piuttosto è nell’arroganza di un certo tipo di turismo che ha snaturalizzato del tutto il rapporto tra le persone.
Quello che rimane di bello e malinconico, sopra ogni cosa, è il costante richiamo della savana.