Faccio così tanta fatica nella vita di ogni giorno a rintracciare la bellezza, tra infernali ore passate al call center per fare un esempio, che, una volta alla settimana, mi dedico alla sua ricerca. La bellezza ha infinite sfumature, eccezionali modi di manifestarsi e rappresentare il frutto dell’ingegno dell’essere umano, della sua finitezza che aspira all’immortalità, della sua possibile grandezza sebbene nasca da esseri capaci di ogni meschinità. I libri mi accompagnano ogni giorno, sempre, e mi aiutano a non soccombere al gretto: non che non sia capace di apprezzare le meraviglie della quotidianità, ma proprio non mi basta. E allora c’è quell’appuntamento, con un solo amico, quel momento fatto di musei, mostre, quadri, catacombe, scavi, rarità o giri più o meno fruttuosi nei vicoli della mia città o nella sua periferia a riempirmi tutta fino alla settimana successiva.
Antonio Accurti, protagonista di L’Amalassunta di Pier Franco Brandimarte, vincitore del premio Calvino 2014, edito da Giunti, ha fatto molto di più. Ha lasciato che la vita e l’opera di Osvaldo Licini, pittore nato sul finire dell’Ottocento e pressoché sconosciuto ai più, ne permeasse a tal punto l’esistenza da non potersi più leggere se non attraverso l’autore che, a sua volta, è nel libro letto attraverso la vita di Antonio, detto Ninì. Non ha granché senso parlare di una trama per questo libro, sebbene la storia ci sia e rappresenti una parte niente affatto trascurata. Ma la storia, gli eventi, il racconto sono secondari rispetto alla dimensione di ricerca e scoperta, di flusso, scambio, trasporto. In una corrispondenza che ha sì qualcosa di onirico, ma che preferisco definire sovrapposizione, compenetrazione, condivisione. Antonio Accurti lascia Torino e la sua fidanzata, detta Ninì pure lei, per tornare nel suo paese d’origine, nella barberia del nonno, per ritessere le fila della vita di Osvaldo Licini: in realtà per legarsi a quello in comunione e non tanto per capire se stesso quanto per congiungersi il più possibile alla vita di quel pittore scomparso dalla storia, l’uomo zoppo che con l’attrezzatura necessaria alla sua pittura calpestava le vie di Montevidone con la testa rivolta all’Amalassunta e considerato strambo dai suoi concittadini. E che cos’è l’Amalassunta? Non ci sono parole migliori di quelle di Licini stesso per rispondere a questa domanda:
Se dovessero chiederle chi è Amalassunta, risponda pure, a mio nome, che ‘Amalassunta’ è la Luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco.
Stanco per la zoppia dovuta ad una ferita di guerra, stanco per il mancato riconoscimento dei suoi compaesani (sebbene quegli stessi lo abbiano ad un certo punto eletto per due volte sindaco), stanco per gli stenti patiti. Ma la luna stessa può ispirare poemi e poesie d’amore o invece essere percepita come maestosa, governatrice delle maree, come Licini che si scaglia contro la concezione dominante dell’arte, come Licini che lascia la sua donna provocandone la furia e mette incinta la sua infermiera, che si innamora di una donna svedese, Nanny Hellströmm, e la conduce dalla Francia a Montevidone e la ama tutta la vita, come Licini che muore poco dopo l’ambito riconoscimento. Come la luna che cala, cresce, muta.
Ninì lui, Ninì lei, Nanny la donna di Osvaldo Licini, le vite che si intrecciano, i nomi e le storie che non si assomigliano eppure poi finiscono per essere l’una lo specchio dell’altra, narrati da un giovane esordiente dalla scrittura asciutta che accompagna meravigliosamente un racconto al limite della fantasia con una bibliografia curatissima. Un diario intessuto di invenzioni che rende Licini vivo, respirante, che ne racconta non tanto la conoscenza con Morandi e Vespignani, ma l’amicizia con quelli, non il matrimonio con Nanny, ma l’amore, non l’opera pittorica ma l’ispirazione. L’Amalassunta.
Dove tutto questo conduce personaggio e autore? Dove finiscono i cuori un poco stanchi? Quando la bellezza cessa di essere concetto vuoto estetico per divenire permeante valore etico? Pier Franco Bradimante usa la parola, Licini usava il pennello, il gesto differente nel risultato comune che è poi in realtà un mezzo: la necessità assoluta di comunicare. Perché forse la bellezza è più di ogni altra cosa un dare, ed essere riconosciuto per Licini non era forse necessità di fama o plauso quanto voglia che il suo dono fosse capito, accettato.