Finalmente la ‘povna ha trovato – complice una tendenza alla lettura italiana, negli ultimi tempi – il tempo di iniziare la quadrilogia dell’Amica geniale di Elena Ferrante. I volumi la aspettavano sul comodino (metaforico: in realtà stanno sul kindle) già da qualche settimana, veramente: e a febbraio ha fatto un bel respiro, si è buttata in quel mare da oltre milletrecento pagine, e ha iniziato.
Il risultato (non ancora finito, a dir la verità: è a metà del terzo) è una galoppata narrativa così come non le capitava da un bel po’, nel nome di una autrice che dire “brava” è solo giusto: bello stile e bella trama. Per questo venerdì del libro, alla ‘povna sembra giusto omaggiare la quadrilogia di una serie di recensioni autonome, cominciando (ovviamente) dal primo volume.
La storia, raccontata come un lungo flashback da una delle due protagoniste, Elena Greco (che è anche, almeno finora) di tutta la vicenda narratore autodiegetico (il punto di vista, invece, più o meno volontariamente, è mutevole, e passa talvolta senza continuità da Elena a Lila), parla di due ragazzine, entrambe molto dotate, amiche sin dall’infanzia, che crescono in un rione periferico di Napoli, nate a ridosso della seconda guerra (nel 1944). L’infanzia miserabile dei primi anni Cinquanta, l’atmosfera collettiva del rione (la cui descrizione accenna a Pasolini, ma parte dai Malavoglia di Verga – passando per tanta letteratura napoletana da Ortese a Rea, per dire alcuni nomi tra i tanti), un neo-neorealismo sorvegliato e intelligente consentono sempre all’affresco sociale di non farsi né lirico, né quadro di insieme asettico. In questo il narratore, pur mantenendo il fuoco sulle due bambine (il primo volume è dedicato infatti, così dice il sottotitolo, a “infanzia” e “adolescenza”), gioca con le consapevolezza di un lettore contemporaneo che di quella vita agra sa già tutto: povertà, sopraffazione, fatalismo e maschilismo sono presentati come gli ingredienti ovvi di una Napoli insieme terribile e bellissima, epitome dell’Italia e delle sue contraddizioni. In questo contesto, la scuola arriva per Elena (Lenù) e Lila (Raffaella) come l’unica ancora socio-culturale di salvezza: le due ragazze sono in gamba, promettenti: dopo le elementari canoniche, che entrambe trasvolano, bravissime, la maestra vorrebbe farle studiare. La famiglia Greco cede alle insistenze dell’autorità didattica, i Cerullo (genitori di Lila) invece no, e la separazione si compie. Inizia così quel percorso, descritto progressivamente in parallelo e nel dettaglio, che, come i due poli opposti di una calamita, contemporaneamente avvia Lenù sulla strada di una emancipazione sociale (e autodeterminata, con una volontà alfieriana, certe volte) che la porterà fuori dal rione e da Napoli, e che invece risucchia perversamente Lila (spaventata, quasi, dalle conseguenze a lungo termine di un superamento di confini che lei stessa si pone come veto, innanzi tutto) nelle dinamiche acquiescenti della sua condizione popolare.
Quale sia “l’amica geniale” che dà il titolo al volume e alla serie il lettore avrà così modo di domandarselo non una, ma parecchie volte. Che riceveranno una risposta variamente diversa: sia Lenù, sia Lila sono infatti “l’amica geniale” una dell’altra, là dove non sarà sbagliato forse leggere, etimologicamente, l’aggettivo anche nell’accezione (declinata in maniera paradossale, ma non meno evidente) di “genio tutelare”.
In questa prospettiva, pare alla ‘povna viceversa riduttivo provare a chiedersi – come ha letto nella maggioranza di recensioni (che non l’hanno poi tanto convinta, a dirla tutta – quale dei due personaggi si riveli maggiormente specchio dell’autrice nel testo (un’autrice che, come è noto, ha fatto dell’azzeramento del profilo biografico una scelta letteraria forte – scegliendo di adottare uno pseudonimo), perché a lei sembra che, in qualche modo, quanto Lila, tanto Lenù (è rivelatore, in questo, come accennava, il gioco dei punti di vista, dal momento che, con errore tecnico apparente, talvolta Elena finisce per entrare nella testa di Lila, e raccontare dai suoi occhi), rappresentino i due esiti possibili del percorso di una stessa figura ideale di bambina, a incarnare le due strade, parallele, di quel bivio narrativo da cui ha origine tutto: la scelta (o possibilità) di continuare a studiare. Ed è in questo, allora, di riflessione in riflessione, che il destino delle due amiche rivela, a ben guardare, anche i modelli che, più di quelli letterari strictu sensu, si possono per la ‘povna ascrivere alla quadrilogia, con una certa sicurezza: vale a dire quella tradizione di un certo cinema che, assai spesso, dal dopoguerra in poi, ha mostrato di rappresentare in parallelo e meglio la realtà italiana. Spicca, tra tutti – e stupisce in questo il silenzio dei critici italiani (il parallelo, non a caso, è stato segnalato invece all’estero) – un nome, e un titolo: quella Meglio gioventù di Giordana, film in grado di scattare una foto generazionale di quarant’anni di storia di Italia, vivida e attendibile. Moltissimi particolari (i due fratelli Carati che rispecchiano le due amiche sorelle; i diversi percorsi paralleli, tra emancipazione e regresso; i luoghi topici di un’Italia che cambia, a patto di sostituire a Roma Napoli; la stessa ambiguità del titolo) sembrano confermare una derivazione schietta, quasi che la Ferrante abbia voluto offrire, generazionalmente, e con altri strumenti, la sua propria risposta alla lettura di Giordana. Con un dettaglio finale che arriva come una conferma: la scelta di fare finire con un fermo immagine del matrimonio (precocissimo) di Lila questo primo romanzo – un elemento che rimanda in modo evidente al finale del primo atto del film di Giordana.
Con questo post la ‘povna partecipa al venerdì del libro, come sempre. Aggiungendo anche però, in omaggio a #ioleggoperché, la proposta di segnalare l’iniziativa collettiva on-line sul portale come gruppo di lettura.