Partiamo, amici carissimi, dal titolo pretestuoso e un po’ ingombrante, di questo post:
“L’amore assoluto, l’amore bello…”
Dunque, badate bene, da nessuna parte sta scritto che l’amore è perfetto, l’amore perfetto non esiste, è solo degli angeli, ossia di creature non corporee che hanno già raggiunto una dimensione tutta spirituale, tutta tesa verso l’alto, fuori dalle contingenze della vita reale.
Per chi è credente gli angeli esistono, ed esistono in quanto creature semidivine, cioè appartenenti alla sfera del divino; essi ci osservano, ci guardano, ci proteggono. Addirittura ci sono gli asceti ed i mistici che dicono di vederli, di potere parlare con loro, di potere sentirli.
Non appartengo a questo genere d’umanità; tutto quello che io so apprendere e rielaborare e trasmettere è frutto di un’esperienza empirica, legata alla materia.
E’ pur vero che in quanto noi stessi creature semidivine, cioè appartenenti a Dio nel senso create da Dio, siamo tutte chiamate a quella sfera, solo che noi dobbiamo passare attraverso la materia, loro, gli angeli, non devono sottostare a questo passaggio.
Per chi non è credente, le parole appena dette sono aria; non hanno nessun senso, e per questi è addirittura scontato pensare e vivere in termini di pura contingenza.
Di certo anch’io che non sono materialista, della materia mi devo fidare perché senza di essa io resterei un emerito nulla di fatto.
E’ pur vero che lo stesso stare legati all’esperienza ci porta a consumare condizioni di vita non esattamente educative, non esattamente costruttive, non esattamente auspicabili.
Tanti sono gli esseri umani distinti nella loro unicità e singolarità, tanto sono le possibili esperienze che gli individui potrebbero in un libro immaginario raccontare di sé. Se ci fosse questo libro immaginario, esisterebbe di per sé un sapere trasmissibile prezioso ed indagabile, che certo renderebbe l’umanità migliore e migliorabile.
Il problema sta dunque nel fatto che l’uomo non si racconta: lo fa quando deve creare uno spettacolo teatrale o musicale, lo fa quando deve scrivere un libro su un determinato argomento che però non coinvolge in genere la sua diretta esperienza, lo fa quando deve creare uno spettacolo cinematografico, lo fa quando deve documentare la propria esperienza lavorativa per uno scopo scientifico, lo fa quando deve comunicare dati e valori e contenuti spesso di carattere generale, universale, teorico ed astratto.
Quando però si tratta di dire: “Questa è la mia vita, questo è il mio vissuto, io lo racconto perché voglio che diventi patrimonio del sapere, occasione di scoperte e di ricerca per tutti, condivisione razionale ed emotiva, costruzione di comunità…” bè, siamo sinceri, la cosa un po’ ci imbarazzerebbe, ci lascerebbe interdetti, perché è contro le più elementari leggi del vivere allo stato naturale.
Perché dico stato naturale? Perché raccontare, narrare, diventare per l’altro un libro vivente che parla non è un gesto spontaneo, richiede cultura, richiede sapere, richiede conoscenza, richiede apertura, richiede pluralismo, cioè richiede evoluzione.
E’ dunque la tutela del primitivo, del non evoluto, il maggiore flagello del genere umano; non ci si può esporre, non fino in fondo, perché non siamo in una comunità di angeli, ma di demoni che attendono un passo falso da parte del nemico per poterlo sotterrare, con qualunque mezzo.
Il nemico ti sta di fronte, è lui l’idiota che invidi, ma sta attento, il mondo potrebbe accorgersi di tutto questo e cominciare a dare il giusto peso alle cose.
E’ pur vero che nel rispetto della privacy è possibile trasmettere comunque il patrimonio personale del proprio sapere, e chi lo fa non è certo un ingenuo o uno sprovveduto; è qualcuno che vede nella condivisione una fonte di benessere e non di perdita, è qualcuno che aspetta di trovare altri che come lui sappiano mettere in gioco saperi, contenuti, bellezze, per amore stesso del genere umano e per amore stesso della vita.
Tornando al tema dell’amore assoluto cioè bello, esso è tale quando è pronto a qualunque sacrificio; quando è mosso da ragioni non egoistiche e banali, ma vitali, fondate sulla donazione di sè; quando rende le due persone coinvolte (e dunque di riflesso anche il mondo) migliori e più forti; quando sa vedere i limiti reciproci e li sa accettare senza riserva; quando viene costruito nel cuore e nella mente e non nel mero atto sessuale; quando arriva all’atto sessuale come conclusione naturale di sé dopo un percorso di costruzione, di vitalismo, di confronto, che può richiedere decostruzioni; quando si alimenta di quotidianità, dello scorrere del tempo; quando non teme la noia perché anche la quotidianità è occasione di amorevole compagnia; quando non teme il passare del tempo perché si invecchia, più o meno, insieme; quando rimane giovane nonostante il passare degli anni attraverso la condizione mentale aldilà di quella fisica; quando disconosce la finzione perché tutto viene condiviso e non c’è necessità di nascondere; quando c’è la fiducia dell’altro e per l’altro. E tutto questo senza un tempo a termine conosciuto, semplicemente fino a che l’amore ama.
Conclusione: tutti i legami che non contemplano tutte le condizioni sopra elencate, non sono legami assoluti e dunque belli, che significa che il 95% delle unioni amorose non sono assolute e dunque non sono belle.
Ma questa siamo noi, è l’umanità mediocre, che non vuole legami assoluti vissuti come totale perdita del sé e commistione con l’altro. L’io e l’altro rimangono due entità distinte e contrapposte che si scambiano semplicemente servizi, favori, doveri, obblighi, sia di natura morale che materiale.
Sono cioè compromessi, intese, alleanze, più o meno riuscite, più o meno lunghe nel tempo.
E’ pur vero che anche la coppia peggio riuscita si può in qualunque momento ravvedere, si può in qualunque momento ricostruire. E’ sempre una questione di fare il salto.
E’ sempre comunque la questione di stare nel posto giusto al momento giusto, e a discolpa di quel 95% d’umanità che siamo noi che bazzichiamo nel caos, occorre dire che essere una coppia bella (e non una bella coppia che è un’altra cosa) non è una scelta, ma una necessità.
E non si può essere in assoluto quello che si vorrebbe arbitrariamente essere.
Si può solo accettarsi, ed ognuno nella propria specifica condizione diventa una presenza comunque preziosa, ineliminabile, afferente la sfera del divino per un credente, la sfera della vita organica per un non credente.
La molteplicità dell’universo mondo è un dato oggettivo; accettare il mondo significa accettare la sua diversità, il suo mare magnum di conflitti insanabili ed eterni nel senso di sempre ripetitivi e ripresentabili. Se dunque solo il 5% dell’umanità è chiamata all’amore assoluto e dunque bello, il rimanente 95% del genere umano è comunque parte sostanziale di questa piccola frazione.
Non ci sarebbe questo piccolo mondo senza tutto il peso del mondo che sta nella vasta circonferenza d’interesse; il peso del mondo è la realtà nella sua immediata contingenza, quella che non vuole cambiare, che non vuole cedere il passo, che al semaforo vuole superarti perché lui conta e tu no, quella che si ritiene già perfetta di suo e che pensa per logiche conservatrici e non innovatrici, quella che non si mette mai in discussione, quella che concepisce l’abbandono di sé come momento di sconfitta e non di evoluzione.
Insomma, è il postino che ci porta la posta e che dalla vita non desidera altro, il macellaio che ci fornisce la carne e si considera il più furbo del paese, l’insegnante che ci istruisce il figlio senza preoccuparsi di farlo bene, la suocera che speriamo debba sempre rimanere alla porta, l’amico con cui ogni tanto andiamo a farci una birra e poi tutto finisce lì, il nostro capufficio che ci lascia vivere senza opprimerci la giornata ma solo perché vuole che a lui si faccia lo stesso, il vicino di casa che ci fa incazzare perché non mette la pattumiera come dovrebbe metterla ma solo perché è analfabeta, il prete della parrocchia che nel momento della messa ci chiede l’offerta ma poi si dimentica d’essere cristiano, l’extracomunitario che al semaforo dell’incrocio ci chiede la moneta mentre noi avremmo l’istinto di investirlo, il cronista del telegiornale che ripete per l’ennesima volta la stessa notizia già data, la puttana che sta giù all’angolo della strada perché non sa come sbarcare il lunario, nostro fratello che avrebbe voluto tutta l’eredità solo per sé e invece ha dovuto vederla divisa tra servi e servitori…
Investito di questo diritto è il cadavere che facciamo finta di non vedere solo perché metterebbe in crisi tutto il nostro labile sistema di certezze, è la paura che abbiamo nel cuore e che rischia di tenere lo stesso 5% del genere umano dentro “ il pozzo della normalità”.
Dopotutto alla fine è solo una questione di collocamento.
Il piccolo mondo che corre sta in cima la collina, tutto il resto viaggia in orizzontale o in sottocoperta.
E l’umanità ha bisogno di questo piccolo bacino di speranza e di luce.