Il libro Gone Girl di Gillian Flynn sta facendo molto parlare di sé negli ultimi tempi, è esploso come caso letterario e adesso, come spesso accade, ci hanno fatto un film.
Mi riesce difficile definirne il genere letterario di appartenenza poiché ne racchiude diversi: inizia come romanzo, poi si tinge di toni più scuri degni del thriller e del giallo. Sulla trama cercherò di fornirvi solo i dati strettamente necessari per evitare degli spoilers per chi non abbia già visto il film o letto il romanzo.
Il libro è ambientato ai nostri giorni, Nick Dunne è uno scrittore belloccio sposato da cinque anni con l’attraente Amy Elliot, protagonista di una collana di libri per bambini scritta dai suoi genitori: The Amazing Amy. I due, perso il lavoro, si trasferiscono da NY nella cittadina nativa di Nick nel Missouri per stare più vicini alla madre malata di cancro, decidendo di aprire una piccola attività: The Bar.
Amy rappresenta il sogno proibito per qualsiasi uomo: ricca, divertente, sexy, senza pretese e mai col muso lungo; la donna, però, una mattina, improvvisamente, scompare. La possibilità di una fuga volontaria diviene una pista morta, quando la polizia trova schizzi di sangue nella cucina e con il luminol rileva una grossa quantità di materiale ematico sparso sul pavimento. I sospetti ricadono progressivamente sul marito fedifrago che non sembra essere particolarmente angosciato per la scomparsa della moglie…
Lo stile della Flynn è curato e cangiante, si adatta perfettamente alle voci dei due protagonisti che si alternano nella narrazione (elemento valorizzato dalla doppia traduzione affidata rispettivamente ad un uomo e una donna); i personaggi sono ben strutturati e delineati e, sebbene a primo acchito sembrano ricalcare dei consueti cliché, ti sorprendono nel corso della lettura, rivelando delle personalità molto più complesse, intriganti e… diaboliche.
Quella della scrittrice è una scelta editorialmente furba: imboccare una tematica di grande impatto emotivo (soprattutto perché storie del genere sono diventate di ordinaria follia) rivelandone, però, un intento forte: la denuncia non di un amore bugiardo (infelice e fuorviante integrazione italiana) ma bensì di un “amore” malato.
Nel libro, infatti, si esaspera la condizione della vita matrimoniale, in cui, superata la favola dei primi tempi, si cerca di convivere con le paranoie e i malumori del partner, a volte nascondendoci dietro una menzogna che cela un matrimonio fatto di incomprensioni e di rancori personali.
La Flynn fotografa in modo realistico la nostra società, strizza l’occhio alla realtà degli invadenti mass media divisi fra innocentisti e colpevolisti, ai giornalisti con l’occhietto umido, alla strumentalizzazione e alla morbosa e predatoria attenzione di spettatori drogati di queste tragedie domestiche ormai all’ordine del giorno.
Il libro si fa leggere con piacere e rappresenta una voce sicuramente fuori dal coro che cambia le regole del thriller, ribaltandone le classiche prospettive.
Unica “pecca”: il finale, che mi è sembrato un po’ affrettato, forse volutamente. Invece, le scene conclusive del film (di cui vi parlerò fra qualche riga) mi sono sembrate più convincenti. Il regista, infatti, ha reinterpretato il finale dandogli i tratti definiti dell’incubo.
Il lungometraggio che conserva il titolo del libro, si struttura ad anello, infatti il primo piano sullo sguardo vuoto e assente di Amy, mentre il marito le accarezza i capelli, apre e chiude la pellicola.
Il regista David Fincher è specializzato nella produzione di film thriller, ricordate Seven o Panic room? Inoltre, ama l‘effetto sorpresa volto a lasciare impietrito lo spettatore dinanzi allo schermo (pensate alla sua pellicola cult Fight Club, tratta dall’omonimo libro di Chuck Palahniuk).
Fatte queste premesse credo che Gone girl fosse davvero nelle sue corde e, infatti, le scelte direttive non hanno deluso le aspettative, a cominciare dalla selezione del cast:
Rosamund Pike (la dolce Jane Bennett in Orgoglio e Pregiudizio del 2005) impersona una moglie con una mente fredda e calcolatrice, sicuramente (e per fortuna) “fuori dall’ordinario”. Esile e ossuta, con freddi occhi blu e la mascella contratta, Amy è un fascio di nervi quasi sull’orlo di una crisi isterica.
Lui, invece è il muscoloso marito Nick (Ben Affleck) con lo sguardo da ingenuo “latin lover” che non desta (volutamente) simpatia nel pubblico femminile. I costumi delineano le loro personalità: Amy veste sempre con linee pulite e taglio essenziale, Nick usa camicie e canotte in pieno stile macho; per Neil Patrick Harris nel ruolo del viscido Desi Collings, ex-fidanzato di Amy, vengono selezionati, invece, abiti da ricchissimo “dandy”.
La scelta dei protagonisti e dei personaggi che li circondano è calzante con ottime interpretazioni da parte di tutti, coadiuvate da una eccellente sceneggiatura (firmata dalla stessa Flynn) credibile e reattiva. Certo, alcune scene vengono tagliate rispetto alla trama originaria, però il film non ne risente e scorre fluidamente fino alla fine.
Coinvolgente è la colonna sonora firmata Trent Reznor e Atticus Ross, la fotografia appare pulita ed essenziale e la scenografia è a tratti asettica; il tutto finalizzato a rendere l’assenza di Amy inquietante e opprimente fino alla svolta a metà film.
Senza dilungarmi ulteriormente, il giudizio è pienamente positivo. Direi che è uno dei pochi casi in cui il film rende giustizia al romanzo, soprattutto perché non ne tradisce il messaggio di fondo. Infatti, dopo aver indotto lo spettatore a perdersi nella pericolosa ragnatela tessuta dalla mente di Amy, sorge una riflessione di più ampio spettro: quanto siamo capaci, attraverso l’immagine che diamo, di plasmare, controllare e manipolare gli altri? Ma soprattutto, quanto conosciamo la persona che ci dorme accanto?