Magazine Diario personale

L’amore è anche aspettativa

Da Maddalena_pr

OGNI GRANDE COSA NASCE DA GRANDI ATTESE

foto Val Gardena DolomitiPer un periodo, come molti – forse – forse nessuno, non ho avuto il Natale.
Mi caricavo dietro la borsa onerosa degli anni, il compleanno che per sorte o per sfiga da sempre mi tocca il 25: una bizzarra coincidenza astrale, agli occhi di mia madre credo benedetta. Per me era solo il caso sfortunato di una luminaria in più, in mezzo a vie già sapide di luci, colme d’ogni altrui attenzione.

Avevo smesso gli anni piccini, le pantofole della nonna, chiuse e nere su calzettoni bianchi di filato di cotone. I pigiami Calida, quell’ultimo, rosa coi pois bianchi che ancora rammento. Avevo smesso la festa doppia, il mattino a casa il pomeriggio nel suo studiolo al primo piano in Via Seprio, con gli adesivi natalizi sui vetri della porta e i centrini sotto il bicchiere di Coca Cola.

Ragazza.

Avevo smesso anche il coro della mezzanotte, ingombrare la scala dell’uscita con minigonne intirizzite, fantasie quadrate di panno e golf enormi sui nostri anni ottanta.

Sola in un monolocale aggrappato ai lampioni e alla ricerca di un amore: per un po’ non ebbi Natali.

Il pranzo di rigore, pandori affiancati alla mia torta e le sue candeline. I genitori, qualche parente, regali nella casa di un tempo. Intorno: giorni ordinari. Il Natale era un playback: lasciavo cantare gli altri.

Non facevo l’albero, perché non l’avevo. Non avevo l’albero perché non lo compravo. Non lo compravo perché sarebbe stato di una tristezza disumana, antinatalizia, addobbarmelo da sola. Vedermelo lì piantato sul mio parquet in teak ogni mattina davanti a una mug solitaria, al vecchio orologio attaccato al muro dove correvano dozzine di cartoline promo della vodka in tutte le sue forme. Lasciarlo per andare a lavorare in un posto che odiavo. Dove altri alberelli del cazzo avrebbero irriso la mia insoddisfazione. E ritrovarmelo la sera, sbarcando dalla mia 95 intrisa di fiati, l’odore di gente, di giorni stipati e di sere poco promettenti. Con quegli stessi rami ostinati.

Per un po’, non lo dicevo ma lo facevo, mi fu più facile odiarlo, il Natale. Perché lo invidiavo. Perché invidiavo l’attesa degli altri, quelli che cantavano per davvero. Perché mi sentivo come un aeroplanino di carta, lo tiri e va sempre storto, non una volta fottuta che arrivi in cima a dove avevi puntato. Mi allungavo e non raggiungevo mai la stella cometa. Non rasentavo nemmeno la grotta.

Il primo albero, il primo alberello cinese di aghetti finti e rami traballanti su un treppiede di plastica verde, l’ho comprato con Mathias. L’abbiamo preso una sera in un supermercato, quel giorno gli dico “facciamo l’albero!” e, mentre glielo dicevo, mi ero accorta che era tornato l’amore.
Perché ci vuole un sacco d’amore per aver voglia di fare festa.

Amore. Di qualsiasi tipo. Una dose violenta, insistente, tenace e caparbia di amore.
Di quello che non molla. Che freme già nell’aspettare, nei preparativi. Perché l’amore è anche aspettativa. Quella che sa di buono, di slancio e di rincorsa.

Che allora le luminarie non sono baffi di luce che ti snobbano. Gli alberelli in ufficio non ti prendono per il culo. I tappeti rossi fuori dai negozi non ti sfottono. Ti ricordano solo che la festa è già cominciata. Che è con questo spirito, che potresti fare le cose. Anche quelle di sempre, anche nei giorni comuni. Come fanno i bambini. Con le mani piccine e dentro un seme d’eterno.

È l’aspettativa, a fare grandi le cose.


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