Slegato da ogni vincolo sociale cui la tradizione l’aveva connesso, nell’età della tecnica l’amore è nelle sole mani degli individui che si incontrano e ha il suo fondamento nel segreto della loro intimità, unico luogo dove trovano espressione le esigenze più personali e imprescindibili. Contro la realtà delle astrazioni, delle statistiche, dei numeri, delle formule, delle funzionalità, dei ruoli, l’amore esprime la realtà degli individui che rifiutano di lasciarsi assorbire totalmente dal regime della razionalità che più si espande e diventa totalizzante, più rende attraente nell’amore l’irrazionalità che lo governa.
Come unico spazio rimasto per essere davvero se stessi, l’amore diviene la sola risposta all’anonimato sociale e a quella radicale solitudine determinata, nell’età della tecnica, dalla frammentazione di tutti i legami. Sentendosi attori in un modo regolato esclusivamente da meccanismi, gli innamorati non riconoscono alcuna istanza sovraordinata al loro amore, che non ha altro fondamento o altro obbligo se non nella loro libera scelta. E se un tempo l’amore si infrangeva di fronte alle convenzioni sociali, oggi appare l’unico rifugio che salva l’individuo da queste convenzioni, in cui nessuno ha l’impressione di poter essere veramente se stesso.
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È come se l’amore reclamasse, contro la realtà regolata dalla razionalità tecnica, una propria realtà che consenta a ciascuno, attraverso la relazione con l’altro, di realizzare se stesso. E in primo piano, naturalmente, non c’è l’altro, ma se stesso. E questo di necessità, quindi al di fuori di ogni buona o cattiva volontà, perché a chi sente di vivere in una società che non gli concede alcun contatto autentico con il proprio sé, come si può negare di cercare nell’amore quel sé di cui ha bisogno per vivere e che altrove non reperisce?
[tratto da Le cose dell’amore di Umberto Galiberti, Feltrinelli]