L'antichità classica e le scimmie
di Mario Vegetti
Dalla sua fondazione aristotelica fino al suo compimento galenico, l'anatomia antica rileva senza incertezze la somiglianza della scimmia all'uomo, sia nell'aspetto esteriore sia nella struttura degli organi interni. Aristotele segnala il carattere «antropoide» di questo animale fin nella sua faccia, ed aggiunge che alla dissezione, le sue parti interne risultano «simili a quelle dell'uomo». Certo, questa finalità si rivela fin dal principio un privilegio scomodo per la scimmia, vincolandola strettamente appunto alla pratica della dissezione anatomica. Poiché «la scimmia è l'animale più di tutti simile all'uomo», Galeno ne raccomanda la dissezione come tramite necessario per il passaggio dalla conoscenza del corpo umano ottenuta dai trattati anatomici all'ispezione diretta degli scheletri; i primi esercizi dell'apprendista anatomista avranno dunque luogo sul corpo della scimmia.
Ma già a livello tassonomico, questa somiglianza persino eccessiva produce una situazione di incertezza. Forma intermedia tra l'uomo e i quadrupedi, la scimmia secondo Aristotele è di sistemazione ambigua: appartiene a entrambi i gruppi o a nessuno dei due, rischia di diventare incollocabile. Il verbo torna in Galeno, che nota come l'animale non possa a rigore considerarsi né un bipede né un quadrupede; in mancanza di meglio, almeno per quanto riguarda le sue gambe, malferme, la scimmia andrà allora accostata al bambino. Su questa prossimità fra scimmie e bambini, a loro volta forme di transizione fa l'animale e l'umano, avremo occasione di tornare. Alle incertezze della tassonomia fa comunque riscontro una ben collaudata tradizione antropologica, che marca la netta Inferiorità della scimmia rispetto all'uomo e tuttavia le assegna una posizione non disonorevole se il quadro è completato dal livello superiore, quello divino. Riprendendo Eraclito, Platone scrive che «la più bella delle scimmie è brutta a confronto della specie umana»; ma aggiunge: «il più sapiente degli uomini a paragone del dio sembrerà una scimmia, per sapienza, bellezza e sotto ogni altro aspetto». La scimmia sta dunque all'uomo come questi agli dei: la proporzione segna una distanza abissale, ma implica anche una certa linea di continuità. Eppure, la scimmia è soprattutto, inequivocabilmente, ridicola: nonostante questa contiguità anatomica, tassonomica ed antropologica, o forse proprio a causa dell'imbarazzo che essa suscita nell'animale che si sente troppo simile agli dei per tollerare quest'altra somiglianza. Già Simonide aveva detto che la donna, che deriva dalla scimmia (nel quadro della sua ginogonia fantastica), oltre che rappresentare «il peggior male che Zeus inviò agli uomini», è «per tutti gli uomini motivo di riso». E Aristotele, sia pure non nel contesto della zoologia, ma in quello dialettico-retorico, formula con precisione questo carattere della scimmia come doppio caricaturale dell'uomo: «Occorre considerare se una cosa non sia simile negli aspetti più ridicoli, cosi come la scimmia è simile all'uomo, mentre il cavallo non gli rassomiglia; la scimmia invero non è più bella del cavallo, ma più di questo è simile all'uomo».
Più tardi, il severo Posidonio dirà di non potersi trattenere dal ridere neppure osservando le scimmie malate, le loro mammelle gonfie, la loro calvizie, le loro ernie. E persino Plutarco, uno dei pochissimi sapienti antichi disposto a sostenere la «tesi impossibile» dell'intelligenza degli animali, farà un'eccezione per la scimmia: non sapendo sorvegliare la casa come il cane, portare una sella come il cavallo, arare come il bue, essa deve accettare di ridursi a «strumento del riso».
Il «doppio» dell'uomo
In quanto tale, la scimmia è intanto un giocattolo divertente per i bambini. La sua familiarità con la stanza del giochi — che nel Mediterraneo antico è di gran lunga maggiore rispetto alle epoche successive — è largamente documentata sia dalle fonti letterarie sia da quelle archeologiche. Citando Pindaro, Galeno scrive: «“Sempre bella la scimmia per 1 bambini" dice qualcuno degli antichi rammentandoci che questo animale è un ridicolo divertimento di bimbi che giocano».
Ma anche questa frequentazione della nursery non è priva di rischi. Ellano racconta di una scimmia che. avendo osservato 1 gesti di una balia, spoglia delle sue fasce il neonato e ne ripete il bagno, ma lo uccide versandogli addosso acqua bollente. Se, come vedremo nel prossimo capitolo, il bagno caldo è moralmente sospetto, attuato dalla scimmia esso diviene dunque addirittura letale; e per questo esempio Eliano non esita a definire la scimmia come «il più maligno degli animali».
Come abbiamo già visto, la scimmia non è soltanto compagna di giochi, talvolta pericolosi, del bambini; è loro vicina anche nella morfologia e nella collocazione tassonomica. Una vicinanza che finisce per dare luogo, com'è inevitabile, a quella sinistra del tavolo anatomico: «chi seziona molte volte cadaveri di bambini esposti si convince che l'uomo ha la stessa struttura della scimmia», scrive ancora Galeno riprendendo, in altro registro, il giocoso accostamento che abbiamo prima citato. Specchio anatomico, doppio del corpo umano (ancorché caricaturale), trasgressione zoologica fra 1 generi ben definiti dei bipedi e dei quadrupedi, membro imbarazzante di una proporzione antropologica, strumento del riso e quindi giocattolo (magari pericoloso) dei bambini: questi, a prima vista, i caratteri che l'immaginario antico attribuisce ad un animale anomalo e perturbante come la scimmia.
Ma essi non sono i principali, né giungono a formarne una vera «definizione d'essenza», per dirla in linguaggio aristotelico. E' il corpo stesso della scimmia, nella sua somiglianza con l'uomo, che consegna questo animale alla sua dimensione autentica, che è quella dell'imitazione, della mimesis: già per natura, la scimmia è l'emblema della simulazione e della contraffazione. La scimmia è, si può dire, un imitatore, dunque un attore nato.
Questo dono di natura, inscritto nel suo corpo, si prolunga in una straordinaria facoltà di apprendere i gesti della simulazione. Ma, occorre notare, in modo del tutto eccezionale questa facoltà di apprendimento non segnala — come altrimenti è d'uso — una particolare intelligenza della scimmia, una sua prossimità al logos e alla techne. Di questo non c'è traccia neppure negli autori più pronti a riconoscere la diffusione dell'intelligenza fra gli animali, dal Teofrasto del libro IX della Histoira animalium fino a Plinto ed Eliano: l'imbarazzo antropologico di cui si è detto funge evidentemente qui come una sorta di ostacolo epistemologico.
Il solo Plinio è disposto a riconoscere alla scimmia come a tanti altri animali, una sua «mira sollertia», un suo culto quasi religioso della luna, uno straordinario amore per i suoi piccoli; non senza segnalare, a questo proposito, un carattere eccessivo e pericoloso di tale trasporto, tanto che spesso accade che 1 genitori uccidano i figli soffocandoli nel loro abbraccio...
Le sue doti di simulazione vengono dunque alla scimmia non dall'intelligenza ma dalla natura. Comunque sia, in questo essa non conosce rivali: fra tutti gli animali, è il miglior imitatore (mimelotata) delle cose umane secondo Luciano e secondo Eliano, che ne riprende letteralmente l'espressione. Quest'ultimo ne riconosce le portentose facoltà di apprendimento, «che non deludono mai il maestro». Le scimmie di Eliano possono In effetti imparare a suonare il flauto, a danzare, a reggere le redini e guidare un carro; in Egitto esse imparano pure a scrivere, e per queste prestazioni chiedono denaro come i più scalci mendicanti. La lista delle performances scimmiesche si mantiene pressoché costante, da Plinio (che aggiunge il giocare a dadi) a Porfirio (che aggiunge l'arpa al flauto, e il leggere allo scrivere). Se queste complesse simulazioni non bastano a fare della scimmia un animale intelligente, la consegnano tuttavia alla sua dimensione specifica, che è quella dell'entertainer, dell'animale da spettacolo e da teatro. Una lunga tradizione letteraria (confermata dai reperti figurativi) associa la scimmia all'istrione da palcoscenico. Platone rappresenta l'anima del buffone (gelotopoios) Tersite nell'atto di reincarnarsi in una scimmia; Aristotele ricorda nella Retorica che un (cattivo) «flautista è paragonato ad una scimmia», e cita una diatriba fra attori: «Mimisco dava della scimmia a Callippide perché passava ogni misura». E Demostene definisce il sicofante come una scimmia tragica», autotragikos pithekos.
La sentenza della natura
La scimmia è dunque per natura, per vocazione, persino per guadagno l'animale/attore: non diverte soltanto i bambini ma il pubblico del teatro e dello spettacolo.
E' ancora Galeno che si assume il compito di riunificare in modo sistematico i caratteri disturbanti della scimmia — la somiglianza anatomica, il fastidio antropologico, la simulazione istrionica — e di fondarli su di una compiuta teoria psicofisica della struttura di questo animale. In un breve capitolo del De usu, dove il termine «ridicolo» (geloion) riferito alla scimmia compare ben dodici volte, Galeno formula questa specie di sillogismo: la scimmia cerca di suonare il flauto, di danzare, di scrivere; insomma «tenta di imitare tutte le azioni umane, e fallisce in esse facendo ridere»; essa è «una ridicola imitazione dell'uomo», e «noi ridiamo soprattutto delle imitazioni che, rispettando la somiglianza nella maggioranza dei dettagli, sbagliano moltissimo nel riprodurre la somiglianza delle parti più importanti». Questo maldestro e temerario imitatore ha un corpo ridicolo, un segnale del resto della deformità della sua anima: la giustizia della natura «ha imposto all'anima ridicola dell'animale un corpo ridicolo». Questa inferenza dal corpo all'anima è in effetti un assioma obbligato del finalismo galenico: non sarebbe tollerabile che ad un'anima «retta» corrispondesse un corpo zoologicamente trasgressivo, letteralmente deforme come quello della scimmia.
Ma per quale ragione finalistica a questo solo animale — per giunta il più simile all'uomo — la natura dovrebbe aver assegnata un'anima ridicola? Essa non trasgredisce forse in quest'unico caso la sua provvidenziale giustizia verso l'intero mondo dei viventi, sulla quale Galeno tante volte insiste? Galene non risponde a questi interrogativi, anzi neppure li formula. La scimmia costituisce forse una sorta di ostacolo epistemologico invisibile tale da rendere invisibile questa trasgressione al suo rigido finalismo, tanto esigente in altri casi da non risparmiare critiche allo stesso Aristotele. E' vero che trasgressioni di questo genere non sono senza precedenti, ogni volta che lo spazio dell'animale venga posto in contatto con quello umano. La zoologia aristotelica si era fondata su di un assioma centrale: benché l'uomo fosse l'unica forma vivente perfetta e compiuta (telion), ogni specie animale non aveva altre finalità che la propria sopravvivenza e la propria riproduzione, cioè quel grado di eternità specifica che spetta ad ogni vivente (a imitazione dell'eternità individuale che tocca soltanto alla divinità). E la struttura psicofisica di ogni specie andava considerata come perfettamente adatta a soddisfare questa sua finalità interna. Ma in due passi della Politica, l'uno destinato a dimostrare la naturalità dei rapporti di potere e di subordinazione (libero/schiavo, uomo/donna, anima/corpo), l'altro ad analizzare i modi della proprietà (in primo luogo ancora quella dello schiavo), l'armonico finalismo della zoologia viene bruscamente violato: «le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l'uomo, quelli domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici, se non tutti, almeno la maggior parte perché se ne nutra, e se ne serva per gli altri bisogni, ne tragga vesti e altri arnesi. Se dunque la natura non fa niente di imperfetto né invano, di necessità è per l'uomo che la natura li ha fatti, tutti quanti». Il richiamo finalistico non può qui occultare un paradosso zoologico: quello di animali che esistono non per vivere e riprodursi, ma per essere uccisi e consumati. Dal punto di vista della Politica, cioè del dominio dell'antropologia, l'autonomo finalismo zoologico appare ad Aristotele vano e imperfetto — benché esso sostenesse l'intera impalcatura teorica del De partibus e del De generatione. Anomala e contradditoria in Aristotele, la tesi della finalizzazione delle specie animali all'uomo è canonica nello stoicismo di Crisippo, che non deve fare i conti con, alcuna esigenza epistemologia delle scienze naturali.
Ma in Galeno il problema risulta ancora più complesso. Non solo la condanna infitta alla scimmia dalla natura non si giustifica sulla base del finalismo provvidenzialistico che organizza per il meglio ogni specie del vivente; essa non risulta motivata neppure da un'ulteriore finalizzazione degli animali all'uomo, come in Aristotele e in Crisippo. La scimmia non offre all'animale divino né cibo né lavoro utile (a parte il prezioso servizio reso all'anatomista, che non può essere interpretato come parte del disegno della natura). Animale mimetico e scherzo della natura, essa esiste allora solo nella dimensione dello spettacolo comico; se ha una destinazione finalistica, non può che trattarsi del nostro divertimento; come, fra gli uomini, alcuni decadono alla condizione di istrioni, cosi la scimmia è condannata dalla sua somiglianza con l'uomo ad essere l'attore del regno animale. L'omologia inquietante uomo/scimmia può essere solo pensata nel contesto della mimesis, della simulazione, introducendo nella contiguità la distanza che separa il modello dall'Imitazione.
Ma perché la scimmia è ridicola, la sua simulazione è comica? Aristotele distingue com'è noto la tragedia dalla commedia in virtù del diverso tipo di imitazioni (cioè dei personaggi) che esse rappresentano: la prima imita figure nobili e serie (spoudaioi), la seconda persone dappoco (phauloi) . La commedia è infatti «imitazione di persone più volgari del normale: non però volgari di qualsivoglia specie di bruttezza, bensì di quella sola specie che è il ridicolo: perché il ridicolo è una partizione speciale del brutto. Il ridicolo è qualche cosa come di sbagliato e di deforme, senza essere però cagione di dolore e di danno».
Non sono dunque la tassonomia zoologica né l'anatomofisiologla, con il quadro finalistico che esse comportano, a determinare il marchio del ridicolo che investe la scimmia: piuttosto, esse Importano una classificazione del generi che era nata più propriamente nel campo dell'analisi aristotelica del teatro. E' appena il caso di notare qui che la stessa popolarità di spoudaios/phaulos (geloios) diventa, nell'antropologia stoica, il principio organizzatore della partizione fra i saggi e gli stolti.
La condanna alla simulazione
Ma la comicità della scimmia è meno ovvia di quanto appaia a prima vista. Essa è, beninteso, un imitatore: ma la specie che essa imita non è certo dappoco, anzi è quanto di più spoudaion esista nel regno del vivente: l'uomo, appunto, l'animale più vicino alla divinità. Incapace di esistere per sé, votata per natura alla simulazione, la scimmia, imitatrice dell'animale nobile per eccellenza, dovrebbe venir considerata, alla luce della classificazione aristotelica, un attore tragico. E, come vedremo, non mancheranno nella tarda antropologia antica effetti di questo paradosso. Per lungo tempo, tuttavia, nonostante la nobiltà del personaggio, l'attore che lo rappresenta resta comico. Il ridicolo non può allora consistere se non nel fatto che si tratta di un cattivo attore: la natura dell'imitazione non dipende più, come in Aristotele, da ciò che è imitato, ma dalla qualità dell'imitazione. Questo non è certo senza rapporto con la trasformazione del teatro antico, a partire dal III secolo, da un teatro d'autore a un teatro di attori; tanto che il saggio stoico — figura tragica, spoudaios per eccellenza e per definizione — può venir paragonato a un buon attore, che sa rappresentare in modo conveniente sia la parte di Agamennone sia quella di Tersite. Se si è del buoni attori, si resta seri e «tragici» anche imitando il buffone Tersite dall'anima scimmiesca; ma il cattivo attore sarà comico anche nei panni più nobili.
La scimmia è dunque l'animale attore, ma un cattivo attore, nonostante la sua riconosciuta abilità mimetica. Delle sue défaillances sceniche ci informa Luciano. Un re d'Egitto aveva insegnato alle sue scimmie a danzare, con le vesti e la maschera di scena. Nel mezzo dello spettacolo qualcuno lancia noccioline sul palcoscenico: i maldestri performers si strappano gli abiti, «da danzatori tornano scimmie» e si azzuffano per il loro cibo preferito: «sicché furono derisi dal teatro».
- Mario Vegetti - (da "Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico" (Il Saggiatore, Milano) 1983 -