La logica, o il “ben dedurre” se si preferisce, sono gli scontati strumenti attraverso cui l’uomo, assoggettando l’esistente, ha conosciuto una progressiva liberazione dallo stato d’indigenza, materiale ed anche intellettivo, che lo ha accompagnato durante tutto l’ancien régime. La sua “potenza”, beninteso, una “potenza” che l’uomo stesso, interessatamente, ha voluto porre in tale procedimento intellettivo, risiede paradossalmente nella “superstizione” che attraverso il “metodo logico-razionale” si possa giungere ad una qualche assoluta finalità, ove ogni “fine” manifesta anzitutto un bisogno esistenziale che voleva essere colto: ancora una volta la volontà d’autoillusione nichilista che, presupponendo una “verità ultima”, pregiudica ogni “mezzo” per poter strumentalmente dare una “risposta” all’apparente precarietà della vita.Alla propria miseria esistenziale. Il regno ove “far tornare i conti”, in tal modo, diventa addirittura più “scientifico”, serio e utile, della stessa “Verità” a cui vorrebbe tendere quella stessa oggettiva logica. Per dirla con Dostoevskij: “l’uomo è talmente attaccato al sistema e alla deduzione astratta che sarebbe pronto ad alterare premeditante la verità, e pronto a non vedere vedendo e non udire udendo, pur di giustificare la propria logica”.
E così ogni progressivo tentativo di ricondurre l’esistenza ad un’universalità assoluta, totalizzante, completamente comprensibile, pare solo l’ennesimo tentativo artificioso di “con-prendere” ciò che sfugge alla totale pretesa del controllo razionale: la vita stessa nel proprio incessante divenire; l’irrazionale dinamicità che solo il sentire di un Piccolo Principe potrebbe invece percepire nella sua intera assurdità logica: “gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore”. Porre infatti un’ipotesi astratta per poi far concorrere ogni sforzo deduttivo nel raggiungimento del premesso risultato finale (la stessa ipotesi originaria), sembra la presupposto fondante ogni “neutrale” ricerca dell’evidenza, della “verità ultima”. L’ormai collaudata autoreferenzialità logica che da sempre pervade coloro che hanno voluto trovare la quadratura del cerchio: porre un principio arbitrario per far tornare infine i conti. Un’astrazione metodologica frammista al desiderio di autocompiacimento, quella dell’es-perimento, che da Galileo in poi ha però enormemente affinato la propria astuzia razionale, sino ad essere diventato un dogma comunemente accettato dalla doxa. Un’abitudine. Un’ovvietà data, troppo frivolamente, per scontata (l’antivitalità dell’autoreferenzialità logica: proiettare la “ragione” su un assioma aprioristicamente stabilito; organizzare esperimenti per “scoprire” che le proprie ipotesi “hanno ragione” -anziché cercare di superarle, di renderle false-; parlare con l’altro per sentirsi dire ciò che si vuole, reciprocamente; ridurre la vita e il mondo a sé stessi, e non gettare invece sé stessi nel mondo e nella vita; convertire il thauma ad una finta, ipocrita azione ideativa -provare stupore logico verso tutto ciò che si spiega, che si può “dire”, che ritorna con precisione ciclica… stupore per il fatto che “abbiamo ragione”-. Un’esistenza tautologica).
Autoreferenziale come lo sono tutti i “pistolotti” che nascono dalla
paura di un fallimento, la razionalità, incoerenza logica par excellance, presuppone infatti che tutti gli uomini ne possano
infine provare la bontà (la convinzione dell’uomo, democraticamente inteso come
animale razionale, sconta, nel suo giustificarsi, una distratta miopia di fondo.
Quella di essersi voluta disinteressare del soggetto, retrocedendolo a
variabile trascurabile, pericoloso alla stessa "correttezza" del risultato premesso). Con buona pace del “pio” Odifreddi,
l’uomo guidato dal logos-pensiero è
in realtà, al pari dei creduloni di ogni epoca contro cui quella razionalità
vorrebbe peraltro scagliare i propri strali, un uomo di fede. Anche la logica,
come qualsiasi ignoranza che si manifesta nella creduloneria, aggrappa infatti
la propria consistenza ad un pregiudizio che ne fondi l’ontologia. Anche la sua
essenza originaria è così, a ben vedere, un’irragionevole auto da fè che serve, narcisisticamente, a sostenere un soggettivo
con-vincimento. E così quella completa e disinteressata imparzialità, quella
che, paradossalmente, dovrebbe farsi garanzia di oggettività e di certezza (che
non sbaglia mai!), pare semplicemente essere una mera finzione, una distratta rettorica, o meglio, per dirla col
goriziano Michelstaedter: “se
“oggettività” vuol dire “oggettività”, veder oggettivamente o non ha senso
perché deve aver un soggetto o è l’estrema coscienza di chi è uno colle cose,
ha in sé tutte le cose”.
Cartesio, esemplarmente, si palesa quale topos emblematico di questo vizio originario di fondo. Rileva a tal
proposito Nietzsche: “Bisogna dubitare
meglio di come ha fatto Descartes! Cogito è sì una parola sola, ma può
significare molte cose. Nel famoso cogito è contenuto: 1) si pensa, 2) e io
credo di essere ciò che si pensa, 3) ma anche ammesso che questo secondo punto
rimanesse in sospeso come cosa di fede, anche quel primo “si pensa” contiene
già un credere, e cioè che il “pensare” sia un’attività per la quale si debba
pensare un soggetto – ergo sum. Ma in tale operazione consequenziale
grammaticale si pongono già le cose e le loro attività, e siamo lontani da una
qualche certezza immediata. Insomma, il “credere” e l’”opinare” si annidano nel
cogito del cogitat e del cogitatur. Alla fine si dovrebbe primariamente sapere
già cosa sia essere per ricavare un sum dal cogito. Si dovrebbe del pari sapere
già che cosa sia sapere: si parte dalla fede nella logica – nell’ergo
anzitutto! É possibile la “certezza” nel sapere? Non è forse la certezza
immediata una contradictio in adjecto?”
Questo logos-pensiero, viziato originariamente dalla confortante voglia di trovare una qualsiasi “quadratura del cerchio”, si propone anzitutto di regolare, organizzare, dominare l’esistente, ché vuole infine ridurre quello stesso esistente ad un’unidimensionalità innocua, addomesticabile, che non faccia più paura, così da poterlo infine prevedere, controllare, e normalizzare alla bisogna. L’uomo logico ha paura del reale! E anziché superare questo suo terrore per tutto ciò che vive, preferisce piegare la terribile realtà ai "suoi" mortiferi desiderata. Ciò che egli può finalmente chiamare, avvalorato dalla democrazia degl’intimoriti suoi pari, con un’espressione piuttosto ironica, la Verità. Come sapeva però Nietzsche, la paura, facendo sopportare qualsiasi vessazione, finisce anche per giustificare ogni insufficienza volitiva: “la paura è infatti il sentimento ereditario e fondamentale dell’uomo; con la paura si spiega qualunque cosa, il peccato originario e la virtù ereditata. Dalla paura si è sviluppata anche la mia virtù, che si chiama: la scienza”. Questa presunzione che si muove nel tentativo di unificare ogni atomo del mondo in una presunta legge universale, nello sforzo di ridurre all’unidimensionalità ciò che nel singolo rimane polifonico e pertanto “epistemicamente indimostrabile”, - trasformando la “realtà umana” in “uomini formula” - realizza dunque la propria arida es-senza. Un’essenza qualificata, oltre che dalla paura sua motrice, pure da una scarsa spina dorsale. Il pio fedele scientista, in tal senso, è un debole che si riscopre tirannello. Sente infatti l’urgenza di dominare il mondo perché non riesce, spesso, a farsi signore di sé stesso. E ottiene così questa consolante autoillusione sopprimendo dal mondo ogni segno che non possa essere abilitato dal cogito, che sfugga alla sua lillipuziana brama di controllo e al suo calcolo (“Il numero è il nostro grande mezzo per renderci il mondo maneggevole. Comprendiamo tanto quanto possiamo contare”), ovvero staticizzandolo, rendendolo “misurabile”, alla portata dell’”intelletto”, contraffatto e sicuro, non vivo.
E così, a quest’uomo che contraffà sé stesso e il mondo solo per non soffrire
della caoticità che è la vita (un uomo ligio alle regole – con maggior
attitudine per quelle preconfezionate -, ché ha paura che qualcuno possa barare
nella gara della vita, per cui deve così credere all’uguaglianza - essere uguali è garanzia di correttezza ai nastri di partenza -, un'uguaglianza imposta
dall’autoillusione più che fattiva, reale, vera; un uomo che abbisogna dell’ordine
perché non sopporta che l’esistenza non segua universali direzioni; un uomo che
non intende decidere, ma che vuole tuttavia imbrogliarsi sulla sua autonomia,
anche razionale; un uomo che cerca la quiete perché non regge il peso della
realtà, ovvero di essere “solo” “una sporgenza casuale dal vuoto” - per dirla con Leopardi -, “un abisso senza
fondo”, l’emergenza dal nulla di un’entità che vuole vivere), si
contrappone forse, almeno idealmente, un altro topos di uomo. “Aristocratico”, per usare una fortunata espressione
nietzscheana.
Scettico ad ogni narcoticum teso ad
addolcire la vita per trarne false certezze rassicuranti la propria
inconsistenza, egli vuole anzi “più
brivido, più pericolo, più terremoto”. Questo tipo d'uomo libero dal bisogno deo-scientifico non intende nascondere “deserti” dietro alle confortanti macchinazione dell’algida razionalità. Vuole
anzi viverli, senza alterare premeditatamente la realtà, nel loro essere “deserti”. Egli non cerca così rifugi, scappatoie o cantucci,
annichilendosi nelle suadenti idee moderne. Vuole averne anzi ragione, fosse anche
quella oggi considerata del tutto irragionevole del disinteresse e del
sacrificio. Una ragione e un senso tutti suoi.
In fin dei conti, sulla diversa genealogia
dell’uomo di scienza aveva probabilmente “ragione”, ancora una volta,
Nietzsche: “ma guardiamo più precisamente:
che cos’è l’uomo di scienza? In primo luogo un tipo d’uomo non nobile, con le
virtù di un tipo d’uomo non nobile, cioè non dominatore, non autoritario e
neanche autosufficiente; ha laboriosità, paziente e ordinato allineamento,
regolarità e misura nelle sue facoltà ed esigenze, ha l’istinto dei suoi simili.
Egli ha bisogno degli altri per sentirsi confermare la propria utilità di uomo
“dotto”, di “scienza”; la sua intera attività è volta alla ricerca di sicurezza
da dimostrare con l’armamento razionale, ma è egli stesso profondamente
insicuro di sé: “quella pretesa agli onori e ai riconoscimenti (che presuppone
anzitutto e soprattutto la capacità di riconoscere e di essere riconosciuti),
quella solarità del buon nome, quella costante conferma del suo valore e della
sua utilità, con cui si deve sempre di nuovo superare l’intima sfiducia, ciò
che sta in fondo al cuore di tutti gli uomini dipendenti e di tutti gli animali
del gregge”. 





