C’è quella politica e quella sociale. C’è quella che dà un (buon) esempio e quella che produce potere. C’è quella umile, che si mette in discussione e sa anteporre la sana legalità alle proprie convinzioni. Ma c’è anche quella che mette le coscienze a posto, e spesso si riduce ad una vetrina pubblica da cui presentarsi al mondo.
Ultimamente, si sono spese tante parole sull’antimafia più di quanto solitamente non si faccia. “Troppe parole sono sbiadite” ha detto don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione Libera e del Gruppo Abele, durante gli ultimi Stati Generali dell’Antimafia a Roma. E sicuramente il termine antimafia è una di queste. E non è colpa dei recenti dibattiti che hanno gettato ombre e dubbi su alcune associazioni che portano il bollino della legalità in giro per il mondo, e soprattutto nelle terre martoriate dalle mafie. La responsabilità non è solo di chi dovrebbe impegnarsi politicamente per rendere più efficace la normativa antimafia e anticorruzione, evitando così che la legge diventi “illegale”. E, a scolorire questa parola, non può (non deve) certo essere la mancanza di alcuni vecchi eroi dell’antimafia, di cui spesso restano solo frammenti di denunce coraggiose da prendere in prestito ad ogni anniversario.
Parole che avevano alle spalle un impegno quotidiano, fatto di paure spesso silenziose ma mai più forti delle idee che le animavano. Una coerenza di fondo, che oggi vacilla. E fa tremare anche quanti finora avevano affidato la lotta per la legalità a personaggi di “indubbia moralità”. Penso ai tanti commercianti palermitani e a quanti avevano consegnato le loro storie di usura e solitudine alle parole e all’impegno dell’ex presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg: traditi da una maschera, sfruttati per un tornaconto personale, vittime ancora una volta di un sistema corrotto dalle mafie. E penso anche ai cittadini onesti di Isola di Capo Rizzuto, orgogliosi fino a qualche anno fa di avere un sindaco “antimafia”, come è stata considerata Carolina Girasole fino al giorno prima del suo arresto per corruzione elettorale e turbativa d’asta in favore del clan locale degli Arena. Ingannati i cittadini e ingannate anche le associazioni in favore della legalità, che durante il suo incarico amministrativo l’hanno coinvolta in numerose attività. Un terremoto che il 3 dicembre del 2013, con l’operazione “Insula”, scosse principalmente la Calabria lasciando poi increduli e delusi quanti si muovevano nella rete impegnata contro le mafie.
Storie di una legalità fac-simile, dove per troppo tempo hanno contato di più le belle parole che i fatti concreti, quelli verificabili, che mettono in discussione puntualmente le storture delle mafie. E che non si tirano indietro dal contrastarle, ogni santo giorno. Un compito che non ha bisogno di essere delegato ad esponenti politici e amministrativi, a magistrati o associazioni, a sacerdoti o giornalisti. Ognuno con il proprio ruolo può dare un contributo, e ognuno deve farlo ancora prima come cittadino. Ad esempio, scegliendo di non andare a prendere il caffè nel bar del clan della città, scegliendo di non accettare il compromesso della corruzione, scegliendo di allontanare e denunciare chi ricatta ed estorce l’onestà. Scegliendo, insomma, di non restare indifferenti per interessi distorti o per una comoda disillusione verso la legalità.
Di questo ha bisogno la lotta contro le mafie, di uomini e donne che sappiano fare scelte coerenti. Sentendosi ancora liberi.