Copertina "Taci infame" di Walter Molino
Una notizia buona, tra le tante che ogni giorno ci mortificano, è quella che i quotidiani di questi giorni ci hanno dato a proposito di alcune iniziative del Parlamento islandese per dare libero accesso a tutti i siti che, come www.wikileaks.org pubblicano documenti riservati di solito in possesso dei Servizi di intelligence civili e militari dei vari Paesi del mondo. A cominciare dagli Usa.
Per quanto gli Stati Uniti, come la Gran Bretagna, siano Paesi di antica tradizione liberale, tuttavia, sul piano delle loro operazioni militari nel mondo, non brillano certo per alcun primato dal punto di vista dell’informazione. In Europa le cose non sono diverse se si eccettua la Finlandia, dove internet è un diritto naturale come l’aria. O l’Islanda, dove pare non esista alcuna censura sulla libertà di stampa e sul libero accesso dei cittadini o dei blogger a tutti i segreti di questo mondo.
Quando penso al futuro mi piace sognare Paesi come questi. Con pochi abitanti, e molte opportunità per gli uomini che amano sentirsi liberi.
Il contrario della tendenza italiana dove questa destra illiberale ha fatto delle mordacchie e dei bavagli i simboli del suo potere di dominio.
C’è la speranza, dunque, che quella che abbiamo da sempre sognato come comunicazione sia un reale scambio e non una “trasmissione”; che le opportunità di interagire tra le persone siano sempre più ampie, e che ci possano essere luoghi, sempre più vasti, in cui le trincee della libertà siano sempre più efficaci contro i rischi delle censure, del divieto a esprimersi, delle varie forme di violenza esercitate dalle mafie o dallo stesso Stato.
In Italia siamo molto lontani dal traguardo della comunicazione creativa, abituati come siamo a essere, come scriveva Curzio Malaparte, un popolo abituato a portare i pantaloni corti, o a produrre fantocci da osannare. Andiamo nella direzione opposta a quella verso cui si muove il governo di Helsinki che intende garantire nei prossimi anni ai navigatori di internet il diritto all’accesso ad una velocità minima concessa dai provider di non meno di 100 Mbps.
Per l’Italia il panorama è non solo provinciale, e sotto la cappa di piombo di vari tipi di censura, ma anche impervio. Basti pensare che la comunicazione è una virtù rara e presenta l’aggravante di avere smarrito ogni legame con la tradizione liberale del suo passato, quando ai giornalisti era concesso il privilegio di far parte di quello che soleva definirsi come quarto potere, il potere della carta stampata. Quella forma particolare di controllo politico-sociale capace di determinare opinione pubblica, crisi politiche, inchieste giudiziarie e soprattutto una libera coscienza popolare.
Il recente libro di Walter Molino “Taci infame” (Il Saggiatore, 2010) ha a che fare con ciò che resta di questa antica e nobile eredità e, soprattutto, con un esiguo drappello di tenaci combattenti della verità e della libertà di espressione la cui vita è stata costretta tra il bisogno di sopravvivere e la minaccia della morte. A leggerlo si prova la sensazione di un precipizio verso l’inferno dantesco. Resistono ancora alcuni brandelli di informazione libera, ma avverti, accanto alla mancanza di libertà, il fiato al collo delle mafie che si sono impadronite dello Stato e governano nella sua latitanza, se non con la sua corresponsabilità. Senti il vuoto della parola che manca, la negazione del diritto.
Questa volta la casistica non riguarda i grandi nomi del giornalismo; non trovi i fatti eclatanti, ma il silente e paziente lavoro oscuro del cronista per passione o per bisogno. In un Mezzogiorno desolato, dove la scena è dominata dalla spada di Damocle della criminalità organizzata; dalla sua spregiudicatezza, dal suo nuovo codice genetico. E’ un giornalismo capillare, integro, onesto, attaccato a una grande idea del fare informazione come presidio del diritto. Il più importante tra tutti: il diritto di parola.
Nei meandri di questo Mezzogiorno di fuoco incontri Forcella, i cutoliani e i traffici di droga, i nuovi arricchiti. Ci sono Arnaldo Capezzuto, e Rosaria Capacchione cronisti di nera napoletani. Ci sono le faide della camorra e dei Giuliano, dei Mazzarella e di Michele Zaza, alias “Michele ‘o pazzo”, divenuto capo di “un impero valutato 700 miliardi di lire, con ville esagerate a Posillipo, in Costa Azzurra e a Hollywood”. Un’offesa alla memoria del giornalista Giancarlo Siani, il giovane cronista del Mattino di Napoli ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985. Sono giornalisti che si muovono tutti sulla scia di una libertà da resistenza sul fronte, dell’inchiesta d’attacco, come Giovanni Spampinato e Mario Francese e tanti altri la cui storia risale alle origini del pensiero democratico del dopoguerra.
A chi si chiede quale sia il risultato, dopo un quarto di secolo, di questa antica e tenace opera contro lo strapotere della camorra che con Cutolo, Bardellino e Nuvoletta e i vari boss del Mezzogiorno “ha cambiato pelle”, non può essere data che una risposta desolante. Pochi cronisti coraggiosi sono stati lasciati soli; lo Stato ha perduto la sua battaglia, tutto è rimasto come prima o peggio di prima. L’aggravante sta nel fatto che si è venuta a determinare in Italia un’antimafia di cartone, che ha consentito il carrierismo di molti. Ma bisogna stare attenti, in questa mutazione interessata, a trovare le giuste bussole di orientamento, perchè la navigazione sia sicura e non di piccolo cabotaggio. Le mafie assurte a livello di una cultura dominante sono il riflesso diretto della loro incarnazione dentro il tessuto vivo dello Stato. L’informazione è diventata, prima di tutto, emanazione del potere, non l’opposizione critica al potere.
Nel pregevole libro di Walter Molino, la ricognizione su una sorta di giornalismo di trincea ci fornisce in realtà un’informazione coraggiosa ma marginale che passa a fatica. I resistenti sono i vari Lirio Abbate, Dino Paternostro, Carlo Ruta. Nino Amadore, Giuseppe Baglivo, Angela Corica e diversi altri di cui raramente sentiamo parlare. Sono il tessuto capillare dell’informazione libera, ma non il modello dominante dell’informazione. E questo è il pregio del libro: farci conoscere una resistenza dal basso, rara in un’epoca di omologazione culturale e di asservimento alle proprietà editoriali. Sarebbe errato perciò pensare che questa resistenza civile sia compatta e univoca. Ci sono le voci più disparate, con le loro storie, i loro limiti, ma anche con i loro grandi slanci, e la loro passione morale e civile. Quella che, oggi, fa la differenza, l’antimafia vera.
Giuseppe Casarrubea