“l’apocalisse dei lavoratori” di valter hugo mãe
Siamo a Bragança, Portogallo, oltre 200 km da Oporto e 170 da Salamanca. Una domestica, maria da graça, di notte sogna il paradiso e di giorno avvelena lentamente suo marito con due gocce di candeggina nella minestra, per poi accorgersi che se l’uccidesse veramente non ci troverebbe più gusto. Intanto cade preda della foia senile del padrone, il burbero e colto sig. ferreira, mentre l’amica e collega quitéria cerca uomini più giovani e li trova nel sottobosco degli immigrati clandestini, complice la loro solitudine coatta. Nel tempo libero, entrambe arrotondano vegliando defunti alla vigilia del funerale e immaginarle narratrici accanto a un cadavere ci porta, forse solo casualmente, nell’universo pessoano del “Marinaio”. Opposta a questo gineceo bragantino c’è la compagine maschile. Un giovane ucraino, in fuga da una mamma troppo dolce e un papà che si crede assassino e teme di essere assassinato, spicca su un monotono repertorio di padri, mariti e amanti rudi, distratti, tutti comunque tristi e assenti, come il padre del sig. ferreira, caduto un giorno dal terzo piano. Tentato suicidio? Non sarebbe l’unico del libro, ma lui non muore ed è costretto a ricominciare la vita, “quadrupede di tristezza”, gattonando. Questa, per sommi capi, è “l’apocalisse dei lavoratori” di valter hugo mãe (Cavallo di Ferro, trad. di A. Tessaro).
L’autore dispone personaggi ed eventi di questo microcosmo provinciale (con lui la letteratura portoghese si trasferisce in un’area poco esplorata: la regione del Trás-os-Montes, non nel suo più noto versante rurale, bensì in quello urbano del capoluogo) seguendo un ordine arbitrario in cui i piani temporali si sovrappongono, creano sorpresa, ma anche senso di soffocamento, come in un universo concentrazionario capace di espandersi fino agli ultimi capitoli, dove compaiono ancora personaggi nuovi, ugualmente solitari e tragici. È il caso del piccolo Miguel, che morendo crea legami tra chi lo aveva conosciuto e chi lo vegliava per 50 euro a notte. Come colf intanto si guadagna 4 euro all’ora e questa attenzione balzachiana ai tariffari è uno dei risvolti marginali più simpatici della narrazione. L’altro, meno marginale e più programmatico, è l’attenzione costante ma non ossessiva ai dettagli di una vita sessuale in cui la carenza del più elementare piacere fisico come del conforto sentimentale supera ogni altra carenza prodotta dalla neo-povertà del precariato.
Eppure non ci si aspetti un romanzo crudamente realista. Come in quel film di Almodóvar (la Carmen Maura di “Che ho fatto io per meritare questo?” è nel lignaggio di queste “casalinghe disperate” di Bragança) in cui la nonna suggerisce tutte le risposte sbagliate al nipote che deve applicare l’etichetta “realista” o “romantico” a una lista di scrittori, anche qui lo stile è ibrido e le svolte narrative, a cominciare dal finale, sono sempre delle svolte liriche che forzano la mano al realismo più che assecondarlo.
Ultima nota per spiegare quella che potrebbe sembrare una svista recidiva: valter hugo mãe ha abolito le maiuscole e ridotto la punteggiatura; leggerlo significa anche fare della filologia testuale istantanea per capire dove finisce una frase e ne comincia un’altra, chi parla, chi risponde, se pone una domanda o lancia un urlo. In ciò ricorderebbe un po’ la scrittura di Saramago e, a pensarci, il “premio Saramago” il nostro l’ha vinto nel 2007 con “il rimorso di baltazar serapião”, atipico romanzo storico, solo superficialmente diverso da questo. Ma in Portogallo, forse più che altrove, il picconamento di ortografia e punteggiaura è pratica diffusa che travalica ambiti e periodi delimitati. Qualche volta se ne farebbe volentieri a meno. A costo di passare per gretti tradizionalisti, bisogna ammettere che la tradizione è il frutto di un lungo ripensamento già sedimentato e assodato. Anche nell’interpunzione.