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L'arabia saudita si affida a due donne per rappresentare la sua arte
Creato il 11 giugno 2011 da CatoneChi l’avrebbe mai detto. Alla prima Biennale, l’Arabia Saudita, dove l’arte contemporanea è arrivata di recente (è del 1958 la prima collettiva di studenti, presso il Ministero dell’Educazione; del 1965 per il primo corso triennale, il Middle Institute of Art Education di Riyadh), coglie nel segno.
Perché Raja e Shadia Alem, scrittrice la prima, artista visiva la seconda, scelte dal commissario Abdulaziz Alsebail e i curatori Mona Khazindar e Robin Start, dimostrano un'innata capacità di sintesi. Senza rinunciare alla presa sull'emozione che, più dell'arte mentale, è uno dei diktat della 54ª edizione, secondo le parole del presidente Baratta alla conferenza stampa di presentazione.
Ma vediamola, questa installazione (fino al 27 novembre).
Il titolo, The Black Arch, allude ad un racconto che le sorelle hanno sentito raccontare dalla nonna: in un tempo lontano, un Re sposò una ragazza del popolo. Portatala sul tetto del palazzo, le mostrò 101 porte: avrebbe potuto attraversarle tutte, tranne una, la porta nera, la porta della conoscenza. Ma l’appello del Re rimase inascoltato: la regina varcò la porta, trovandosi faccia a faccia con l’Ignoto. Così è per le sorelle. Il loro viaggio è cominciato dalla Mecca, ma da lì è proseguito. Coi racconti dei pellegrini uditi nell’infanzia innanzitutto, e poi coi viaggi dell’età adulta, sulle orme di Marco Polo e di Ibn Battuta, il viaggiatore berbero del XIII secolo.
Nero come molteplicità, dunque. Incontro tra i popoli, le culture. Passaggio dall’oscurità alla luce. Nero come principio e sorgente generatrice della vita, che rilancia il mito della città universale. Come il monolite di 2001 Odissea nello spazio, che è all’origine del linguaggio, la storia stessa. Nell’installazione, la Ka’ba,la pietra nera, custodita nella moschea di Al-Haram alla Mecca, sacra all’Islam, isolata nel deserto, incontra Venezia, la città dai mille colori, del commercio e dell’esaltazione dei sensi, dove l’Occidente, nei secoli, ha costruito un ponte con l’Oriente, e gli intellettuali hanno esercitato un pensiero libero, indipendente, al riparo dalla censura e la violenza dei regnanti.
Non era facile raccontare tutto questo, senza scadere nella retorica. Brillante è l’idea delle sorelle Alem di collocare, nel Padiglione all’Arsenale, due giganteschi ovali, l’uno perpendicolare e speculare all’altro: nero il primo, in acciaio lucido; ricoperto di marmi bianchi il secondo, disposti a cerchio intorno ad una forma cubica, che al suo interno racchiude una seconda forma cubica. Una fitta sequela di immagini – la spianata delle moschee, i pellegrini, gli apostoli, i mosaici, le vetrate medievali - , proiettate al computer, e il gioco insistito delle luci uniscono le superfici, evocando due mondi, due culture, due modi differenti di concepire l’arte, la vita, mentre nella sala echeggiano le preghiere sommesse dei fedeli.
Difficile descrivere le emozioni che si provano dinanzi a quell’ovale immenso, man mano che il nero si spalanca, rivelando insospettate geometrie. Il viaggiatore si sente irresistibilmente attratto, gli sembra di galleggiare, mentre sottili arabeschi di luce si insinuano tra le gambe, coinvolgendolo e sorprendendolo sempre. Potrà essere, per qualcuno, nient’altro che una suggestione, meno attraente, forse, di altre, più complesse sensazioni che certi lavori suscitano. Ma l’emozione resta, e basta a imprimere nella memoria la "prima" saudita alla Biennale di Venezia.
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