Non è un caso che quest’anno la Mostra Internazionale di Architettura a Venezia abbia riscontrato un aumento del flusso di visitatori pari 7,5%, oltre 12.400 persone nella prima settimana d’apertura e si capisce il perché già dal titolo che è tutto un programa: People meet in architecture.
Non è un caso che la curatrice sia l’architetto Kazuyo Sejima, prima donna a dirigere la Biennale di Architettura, e già si respira aria di novità soprattutto se si pensa che la superdonna in questione ha vinto di recente anche il prestigioso Pritzker Architecture Prize (insieme a Ryue Nishizawa).
Non è un caso che lei sia giapponese, ultimamente sono dappertutto e spopolano portandosi a casa premi e progettando edifici geniali come il nuovo museo firmato appunto Sejima e Ryue Nishizawa per l’isola di Teshima, in cui la raffinatissima struttura è concepita a forma di una goccia d’acqua nel pieno rispetto della morfologia del territorio dell’isola.
People meet in architecture, un’architettura che guarda sempre più all’internazione sociale negli spazi, un’architettura sostenibile, un’architettura bella da vedere e da vivere, questo è il concetto cardine della dodicesima edizione. Spazi progettati non per l’individuo ma per una comunità, dove la comunicazione è l’elemento essenziale del saper vivere e l’architettura ha il compito di favorire questa interazione in un mondo fatto ormai di conversazioni virtuali nell’era della tecnologia avanzata. Un’idea di architettura funzionale ai rapporti sociali diretti che contrasta con l’isolamento e la solitudine. L’architettura ha l’arduo compito di restituire all’umanità il senso di comunità ormai affievolito, essa stessa dialoga con le persone che la vivono, un esempio è lo strepitoso video di Win Wenders dal titolo If buildings could talk, un film in 3D che rende l’idea di come noi viviamo l’architettura e di come gli edifici siano il contenitore delle dinamiche sociali e della nostra storia. Il filo conduttore della Biennale curata da Sejima è l’incontro, ovvero la funzione dell’architettura e degli spazi come veicolo di socialità, il tutto basato sull’ecosostenibilità e il rispetto delle tradizioni, senza dimenticare però il grande apporto delle nuove tecnologie. Sin dai primi passi che il visitatore muove all’interno dell’Arsenale ci si accorge di come sia coerente questa biennale, tra progetti che hanno radici nel passato come le installazioni dello Studio Mumbai Architects che ricreano una postazione di lavoro attraverso materiali e mestieri tradizionali nel rispetto delle tecniche edilizie locali fino ad arrivare ad Aliati, il padiglione italiano che presenta una ricca riflessione sulla crisi dell’architettura contemporanea in Italia, dove una voce risuona continuamente ricordando a noi italiani che il numero degli appalti dal 2008 si è dimezzato, così come sono diminuiti anche i concorsi, facendoci prendere coscienza del deficit del nostro paese rispetto alla Francia e alla Germania. Detta così non traspare una visione edificante dell’Italia, ma in contrasto con la voce altisonante vengono presentati validi progetti d’architettura sparsi in tutta la penisola, lasciando aperto uno spiraglio ottimista verso il futuro. Una biennale che fa riflettere e nella quale sono presenti (come in ogni biennale che si rispetti!), percorsi ludici e interattivi, dal progetto Cloudscape di Transollar e Tetsuo Kondo che ci fa immergere in un ambiente completamente surreale intriso di nubi, fino ad arrivare alla sala dedicata a Hans Obrist, che spezza il ritmo della lunga esposizione all’Arsenale dandoci il “vero ritratto della mostra”, come lui stesso lo ha definito, intervistando gli architetti partecipanti ognuno con la propria visione dell’architettura.
Spostandosi verso i Giardini il visitatore invece si immerge in progetti più distaccati, ma tutti tengono comunque fede al concetto originale della curatrice. Da citare soprattutto è il padiglione del Belgio, che non presenta progetti avveniristici ma si concentra in maniera minimalista sui materiali, ecco allora che sulle pareti troviamo pezzi di pavimenti, varie tipologie di tavoli, materiali da costruzione soggetti all’uso: tutti elementi essenziali che riempiono l’edificio diventando partecipi dalla vita degli individui all’interno. Non entusiasma invece il padiglione della Francia, troppo urlato e disorientante, che si sofferma scrupolosamente sul concetto standard dell’incessante trasformazione dei territori esplorando i pieni e i vuoti dei contesti urbani attraverso video e pannelli esplicativi…Dominique Perrault, curatore del padiglione avrebbe potuto fare di meglio a mio avviso!
Sempre molto emozionante e proiettato verso le nuove generazioni è il padiglione del Brasile che per questa edizione presenta una riflessione dopo 50 anni dalla nascita di Brasilìa, la più grande città progettata e costruita dall’umanità, nata dal piano pilota di Lucio Costa. Particolarmente interessante è la parte dedicata ai giovani architetti tra i 30 e i 50 anni, nati dopo la costruzione della città che espongono il loro punto di vista e i progetti futuri.
Come sempre la Biennale di Architettura ci riporta una molteplicità di sguardi, impossibile elencarli e trattenerli tutti, così come è impossibile visitare in un giorno l’Arsenale, Giardini e i vari padiglioni disseminati qua e la in tutta Venezia. In complesso però si può dire che questa edizione è esperienziale e coerente, incentrata sulla comprensione del mondo attraverso l’architettura e favorendo uno scambio tra quest’ultima e il visitatore, che anche se non ha un occhio esperto può facilmente cogliere l’essenza del concetto: sperimentare l’architettura nelle sue varie declinazioni. Senza dubbio una biennale che alletta gli addetti ai lavori e diletta le menti dei visitatori! Voto complessivo, direi un 8 pieno.