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L’arte dell’incanto: Circe... e le altre

Creato il 20 febbraio 2012 da Rita Charbonnier @ritacharbonnier
Tiziana Daga per Non solo Mozart
Circe dai riccioli belli, dea tremenda dalla voce umana
(Omero, Odissea, traduzione di Ippolito Pindemonte)

L’arte dell’incanto: Circe... e le altre

Franz von Stuck, Tilla Durieux nei panni di Circe (1913)

Maga, incantatrice, signora della natura selvaggia, la divina Circe, figlia del Sole e di Perse, che abitava la luminosa isola di Eea (il promontorio del Circeo, dal greco kirkos, circolare) e che si racconta avesse trasformato in porci i compagni di Ulisse, è l’emblema del fascino che da sempre esercita la femminilità.
Omero, nel X canto dell’Odissea, le dedica più di quattrocento versi, raccontandoci di come la dea–maga vivesse da creatura immortale sulla terra, tra cielo e mare, in un grandioso palazzo immerso in una natura lussureggiante, dove tesseva e cantava con voce leggiadra. Accanto a lei “montani lupi, e leon falbi, ch’ella / mansuefatti avea con sue bevande, / stavano a guardia del palagio eccelso”, ovvero quegli uomini che fatalmente attratti dalla sua bellezza aveva trasformato nei docili animali del suo giardino incantato. Ma la sua è una bellezza insidiosa e il suo fascino insieme alla sua sapienza nel preparare filtri magici la rende capace di operare metamorfosi e di trasformare gli uomini che attrae in esseri di altra specie, specie diverse a seconda della loro psicologia e del loro carattere. Infatti per gli antichi il maggiore attributo di Circe è quello di pothnia fyton, ovvero di signora delle piante, delle erbe e della vegetazione, che lei sa usare per curare, ma anche per rivelare la vera natura degli umani. La dea–maga, come racconta Ovidio nelle Metamorfosi, è implacabile anche verso coloro che ama ma che non la corrispondono, come il re del Lazio Pico che trasformerà in un picchio, o il dio marino Glauco, del quale si vendicherà indirettamente trasformando la ninfa da lui amata – Scilla – in un orrendo mostro marino.
Solo Ulisse, l’eroe per eccellenza, messo in guardia da Hermes sulle arti della maga e immunizzato dall’erba moly che gli consentirà di dominare la sua passione, sarà capace di conquistare il suo amore e il suo letto divino e, così facendo, Ulisse ristabilirà quell’ordine che vuole che anche l’altera dea si sottometta al suo maschio dominio. Con lei l’eroe, prima di riprendere il suo viaggio, trascorrerà un intero anno e secondo Omero avranno un figlio, Telegono (nato lontano), secondo Esiodo ne avranno tre (potenza della magia…). E sarà proprio Circe, ormai ammansita, a guidarlo e a metterlo in guardia da altre possibili seduzioni.

L’arte dell’incanto: Circe... e le altre

John William Waterhouse,
Circe offre una coppa a Ulisse

Il racconto omerico acquista un valore paradigmatico se lo si analizza alla luce della idea che i greci avevano delle donne, di fatto considerate una razza diversa e – come scrive Eva Cantarella nel suo bel libro Itaca – “le donne sono l’alterità che non si può comprendere. E come tutto quello che è incomprensibile e incontrollabile, sono pericolose”. Circe quindi nell’epos greco rappresenta la divina incarnazione dello spirito femminile dominante che prende l’iniziativa, suscitando il desiderio al di fuori dei luoghi istituzionalmente deputati a tal fine. E seppure la più pericolosa, non è l’unica incantatrice con la quale il nostro eroe dovrà fare i conti e sarà proprio lei a metterlo in guardia dalle sirene (mostri dal corpo d’uccello e dalla teste di donna per i greci, poi trasformate in donne–pesce nel Medioevo) che con il loro canto melodioso invitano i marinai sull’isola fiorita dalla quale non faranno mai più ritorno. E ancora, se Circe tratterrà Ulisse per un anno, ben sette saranno gli anni trascorsi dal nostro sull’isola della ninfa Calipso (colei che nasconde) che arriverà a promettergli l’immortalità pur di averlo per sempre con sé.
In tal senso quindi il racconto omerico di Circe, così come quello delle sirene e di Calipso, sembra essere un vero e proprio “avviso per i naviganti” che, come Ulisse, potevano tanto facilmente nell’antichità perdere l’orientamento, ovvero: un uomo può avere pure un’avventura con una seduttrice, ma dopo aver messo in chiaro chi è il più forte. Ulisse quindi non elimina il pericolo, lo ha solo temporaneamente circoscritto. Circe – dopo la sua partenza – rimarrà da sola tra i boschi inaccessibili del promontorio tirrenico e anche quando altri la coinvolgeranno in umanissime storie d’amore e gelosia, la figlia del sole non perderà mai il suo tratto di alterità irriducibile, il suo stare in bilico tra mondi diversi, la sua contiguità con le forze del caos.
Circe quindi fin dall’antichità si pone come emblema di una femminilità non sottoposta al controllo maschile, di una donna conscia del suo potere seduttivo e per questo capace di esercitarlo, che vive libera e indipendente, non sottomessa ai vincoli coniugali della società civile.

L’arte dell’incanto: Circe... e le altre

Circe con uomo-animale,
vaso greco VI sec. a.C.

A questo aspetto è probabile alludano le rappresentazioni più antiche del mito che compaiono su alcuni vasi greci del VI sec. a.C. e in cui Circe compare nuda, senza altri ornamenti se non i capelli sciolti, che si erge – quasi come idolo di una femminilità selvaggia – davanti a uomini dalla testa di animale. Solo un secolo dopo, i ceramografi greci la rappresenteranno con il vaso e la bacchetta evidenziando così soprattutto il suo potere di maga, veste con cui conoscerà una grande fortuna soprattutto nel Rinascimento e per tutto il Seicento, ora come maga sapiente, ora come maga–meretrice.
Come tutti i miti anche quello di Circe nel corso dei secoli ha subito interpretazioni diverse da parte di letterati, poeti, filosofi, musicisti e artisti che, di volta in volta, hanno trasformato l’ambigua figura della dea–maga in una maga maligna, nella capostipite di genealogie illustri (secondo il mito, suo figlio Telegono avrebbe fondato la città di Tuscolo, da dove proveniva la gens Claudia), nel simbolo della seduzione e dell’adescamento erotico, nella dea della reincarnazione, in una prostituta, nella moglie assassina (sempre secondo alcune interpretazioni sarebbe stato proprio Telegono, armato delle frecce avvelenate dalla madre, a uccidere per sbaglio il padre Ulisse), nell’amante delusa. Certamente è lei la più illustre antenata delle tante circi che hanno popolato la letteratura e l’arte occidentale di tutti i tempi. Come lei, sua nipote Medea prepara pozioni magiche che permetteranno a Giasone di impadronirsi del vello d’oro, ma che non gli impediranno d’innamorarsi di un’altra. Altre sue illustri colleghe nell’arte di preparare filtri e pozioni sono, nel Medioevo la fata Morgana del ciclo arturiano e nel Rinascimento l’Alcina dell’Orlando furioso.

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Circe secondo il fotografo
William Mortensen

Parallelamente all’immagine solitaria della maga incantatrice, circondata da mansueti animali ed enigmatici oggetti, dalla metà del Cinquecento si moltiplicarono le rappresentazioni dell’incontro tra la maga e Ulisse, presto trasformate in una vera e propria allegoria della scelta che l’uomo è chiamato a fare tra il vizio (Circe) e la virtù (Hermes).
E se ancora Circe – come emblema di spietata seduttrice – ricompare nelle immagini fin de siècle della femme fatale [vedi in apertura le opere pittoriche di Franz von Stuck e J. W. Waterhouse], al contrario nel XX secolo per molte artiste diventerà l’incarnazione stessa della donna libera e consapevole e il simbolo dei rischi impliciti nella nuova condizione femminile.
Ripensare al mito di Circe così come lo hanno interpretato nel tempo scrittori, artisti e musicisti e analizzarlo anche guidati dal rigore filologico di Maurizio Bettini che, insieme a Cristiana Franco, al tema ha dedicato un bel libro (edito da Einaudi nel 2010), vuole essere soprattutto un pretesto per riflettere ancora una volta non solo sull’eterno fascino e l’intramontabile potere seduttivo della femminilità, ma anche sul suo senso e imprescindibile valore.
Articolo di Tiziana Daga, storica dell’arte, tra i fondatori de La Serliana.

Nel video, Circe (Juliette Mayniel) e Ulisse (Bekim Fehmiu) nello sceneggiato televisivo L'Odissea (regia di Franco Rossi, 1968).

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