Nella lista degli sport praticati dai nuovi compagni di classe di mia figlia, che ora è in prima media, risaltano ben tre casi di ragazzini che hanno dichiarato di dedicarsi al Parkour, che, come recita Wikipedia, consiste “nell’eseguire un percorso, superando qualsiasi genere di ostacolo vi sia presente con la maggior efficienza di movimento possibile, adattando il proprio corpo all’ambiente circostante”. Dopo i ritmi con la bocca e le spruzzate di vernici spray su mezzi pubblici, ecco che l’espressività urbana finalmente si libera dei suoi legami esclusivi con l’arte visiva e prosegue il connubio con il ritmo della città già iniziato con l’hip hop e tutto ciò che ne deriva, attraverso queste nuove arti performative che abbattono i vincoli imposti da ogni limite architettonico. Il Parkour che, sempre secondo Wikipedia, “arriva in Italia attorno al 2005, sviluppandosi molto grazie al web”, come a dire che grazie all’apporto che Internet è in grado di dare ai moti più rivoluzionari della creatività non ci facciamo mancare proprio nulla, simula la reazione degli esseri umani in contesto metropolitano in uno stato di fuga da un pericolo. L’abilità è sfruttare corpo e intelligenza per trovare il modo di spostarsi da un punto A a un punto B nel modo più semplice, veloce ed efficace. Non a caso coloro che praticano questa disciplina si chiamano tracciatori e tracciatrici perché indicano una modalità, avviano un percorso, segnano un solco da reinterpretare. Pensate a quante cose è in grado di insegnarci la strada. Avevo letto, per esempio, che i movimenti che caratterizzano il codice di comunicazione corporea di molti cantanti rap deriva dalla tecnica autodidatta del basket che gli afroamericani imparavano sui campetti improvvisati negli anfratti dell’urbanizzazione statunitense. Ed ecco oggi che il perdere tempo outdoor è stato messo a frutto in una sorta di passaparola globale da giovani in fuga dalle loro tradizionali attività – la scuola, lo sport, l’impegno sociale – in una convincente metafora del loro futuro prossimo. Non importa da che cosa si scappa, l’importante è farlo con arte e poi, soprattutto, twittarlo finché è ancora caldo.
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