Di Silvia Mango
Haruki Murakami e correre per scrivere
La prima parte di questa storia ha inizio negli anni ’80, siamo in Giappone e più precisamente a Tokio. Il giovane protagonista gestisce con un certo successo il Peter Cat, un jazz bar dalle pareti ricoperte di quadri raffiguranti gatti di ogni colore e fattezza, gatti, soltanto gatti, che altro se non. Per meglio comprendere la storia, è bene ricordare che, all’epoca, il ragazzo usava fumare più di sessanta sigarette al giorno che vantava qualche rogna con la bilancia e che d’un tratto decise di chiudere l’amato locale. Si era messo in testa di dedicarsi completamente alla scrittura. E, dunque, senza troppi preamboli iniziò a scrivere. E dal momento che realizzò la scrittura essere un’attività più che sedentaria smise di colpo di fumare le sessanta e più sigarette giornaliere e con la stessa determinazione con cui, ricapitolando cronologicamente: 1) chiuse il locale, 2) iniziò a scrivere e 3) smise di fumare 4) cominciò pure a correre: una media di dieci o più chilometri di corsa al pomeriggio e quattro ore di scrittura la mattina. Così, per tutti i giorni a seguire, i mesi, gli anni. Con costanza e perseveranza … Qualcuno parla di accanimento? Certo, accanimento. E perché no, testardaggine. E tenacia. E con una volontà di ferro, aggiungerei io. Negli anni il ragazzo scrisse romanzi incantevoli e delicati, intrecci in ossessivo e perenne bilico tra sogno e realtà, originalissimi e onirici. Di quegli esordi, il ragazzo, diventato ormai uomo, narratore famoso, dirà semplicemente: “La cosa che mi rendeva maggiormente felice, nella mia nuova vita di scrittore professionista, era la possibilità di andare a letto presto la sera e alzarmi di buon mattino”.
La seconda parte di questa storia si è svolta in una grande città del nord Italia, con un balzo spazio temporale di almeno una ventina d’anni. Frequentavo una scuola di scrittura creativa (scusate: la coprotagonista frequentava una scuola di scrittura creativa) il cui Preside era uno scrittore tanto famoso quanto irritante ma che aveva il potere di affascinare la nostra giovane e ingenua fanciulla restituendola ai batticuori e ai sussulti adolescenziali. La ragazza, forse per la sua giovane età, forse perché non si era ancora cimentata per davvero in qualcosa di più considerevole delle lettere d’amore al fidanzato, non aveva ben chiaro cosa fosse il mestiere di scrivere. Il primo giorno di scuola il Preside, quasi leggendole nel pensiero pensò la ragazza, esordì affermando che lo scrivere era un mestiere faticoso, certo non come andare in miniera - disse proprio così, accendendosi svogliatamente una Merit - ma poco mancava. Alla ragazza gli occhi si fecero a forma di cuore, immaginò una polverosa e umida mansarda, di quelle col legno alle pareti, talmente minuscola che nella stessa stanza ci stava soltanto il letto, inevitabilmente sfatto, un tavolo su cui mangiare e su cui scrivere e in un angolo il lavandino. Niente altro. Niente bagno, quello no, quello stava fuori cosicché il quadretto risultasse ancora più romantico, e all’interno della stanza la ragazza inserì se stessa, ovviamente, e il suo adorato Preside, manco a dirlo, versione moderna di Henry Miller e Anais Nin, entrambi impegnati a scrivere e riscrivere i loro romanzi, in uno sforzo che li rendeva esangui, totalmente rapiti dai rispettivi scritti, dimentichi di tutto, della vita che brulicava fuori e dei loro bisogni, in un disperato tentativo di ottenere qualcosa di simile al soddisfacimento in un foglio di carta. La ragazza, che si rivelò essere un vero totano di ingenuità, confidò le proprie fantasie ai compagni. Gli stessi inorridirono: “Ma che, sei scema? Stare chiusa in una stanza a scrivere per giorni e giorni?”. La nostra amica non fu in grado di replicare, proprio come quando ci si convince di aver fatto una gigantesca gaffe. I compagni, quasi a rincarare la dose, aggiunsero che lo scrivere altro non era che ispirazione, estro; la capacità creativa, uno stato di grazia fugace e momentaneo. Altro che fatica e fatica. Lei arrossì, ma nel suo cuore non smise per un solo attimo di credere alle parole del Preside. Scrivere non era roba da prendere sotto mano. E si sforzò di farlo anche quando le sembrava di non aver nulla da dire e pure quando le si chiudevano gli occhi dalla stanchezza e continuò così, benché i suoi scritti non venissero presi in considerazione da nessuno. Tanto meno dal suo adorato Preside.
Qualche anno più tardi, in un momento di sconforto creativo, un’amica le regalò un libro un po’ particolare, non era un romanzo e neppure una autobiografia. Era l’ultima opera di Haruki Murakami, il ragazzo di Tokio, si intitolava “L’arte di correre”. Lei lesse il titolo e guardò l’amica con aria interrogativa. “Così la smetti di lamentarti”, le rispose, “Se vuoi dei risultati, ti devi impegnare sul serio”. Lesse il libro tutto d’un fiato. Parlava della corsa e della scrittura, la corsa come metafora della scrittura e di come entrambe rappresentino una sfida per l’autore, perché quando si corre, come quando si scrive, si alternano inevitabilmente momenti di debolezza, nei quali si è tentati di gettare la spugna, e momenti di entusiasmo, che ripagano tutto il resto e allora ci si dice, rinfrancati, andiamo avanti.
La ragazza, finito di leggere, si allacciò per bene le scarpe da ginnastica e infilò gli scaldamuscoli, pronta per correre. Il cielo era ritornato azzurro e senza una nuvola. Dopo tanto tempo aveva di nuovo voglia di correre. Perché il libro fa questo effetto: non si può far altro che rimettersi in cammino, un piede dopo l’altro. L’incoraggiamento che trasmette è potente, lo slancio è forte e trascinante, come quello di un bravo professore con i propri alunni, come quello che avrebbe dovuto dare il Preside, pensò la ragazza, ormai liberatasi dalla sua malia.