Non dirlo a nessuno, non capirebbero.
Ora non sei più una lesbica.
Avresti dovuto sentire il modo in cui urlavi il mio nome.
Ha detto che era il mio dovere di “buona moglie cristiana”. Che mi piacesse o meno.
Prendilo! E più io diventavo rabbiosa, più lui sorrideva e rideva.
Silenzio. Solo silenzio. Io dicevo “no”. Lui continuava, ansimando.
Quando si parla di stupro, si parla di numeri, di quante donne subiscono violenza sessuale ogni anno, in ogni Paese, quanti uomini hanno compiuto o pensato di compiere un atto simile. Oppure si parla di concetti, di cosa sia la violenza sessuale, è solo lo stupro o anche una palpata al sedere?, e i ragazzi come la percepiscono? legittimano la pressione al rapporto sessuale purtroppo, come far capire loro cosa vuol dire davvero violare un corpo e una mente femminile?
Quando si parla di stupro purtroppo, molto raramente parlano le donne che lo hanno subito o magari continuano a farlo, incastrate in una spirale di violenze domestiche o familiari.
Le vittime di violenza sessuale ne parlano poco con chi le ama, ne parlano ancora meno denunciando le aggressioni.
Chi non ha vissuto una violenza sessuale spesso si chiede come mai questo silenzio che chiaramente alimenta l’impunità del reato.
Non si rende conto di quanto sia difficile accettare prima di tutto la violazione su se stesse, ammettere di non essere state abbastanza accorte, attente, pronte ad evitarlo e poi quanto sia doloroso arrivare alla conclusione che non ci sia alcuna colpa nel subire una simile violenza. Per chi non ha subito violenza sessuale, non è facile capire quanto sia complicato poi rimettersi in piedi, dirsi che non è la fine del mondo e contemporaneamente però percepirsi come vittima, non lasciarsi schiacciare da un atto violento, iniziare a pensarlo come uno scippo, arrivare a dirsi “la prenderò come se mi avessero aggredito per rubarmi la borsa“.
Allo stesso modo in cui ricomprerei le cose che erano lì dentro, riprenderò quello di cui mi sento privata ora.
Si può spendere anche una vita a cercare di recuperare autostima, fiducia, senso del pudore, spirito di sopravvivenza.
E comunque lo si fa per lo più da sole, perchè parlarne ingenera meccanismi di pietismo o di emarginazione, di colpevolizzazione o di caccia al mostro che in ogni caso scavalcano le aspettative di chi vorrebbe solo poter confidarsi senza subire giudizi, senza ingenerare reazioni eccessive.
Come se ti avessero rubato una borsa. Bella grande, piena di cose.
Gli stupri si possono, si devono raccontare. Non è facile, quasi nessuna lo fa. Ma quando qualcuna prende parola, parla per tutte.
“Project Unbreakable – l’arte di curarsi” è un esempio di racconto collettivo e terapeutico al tempo stesso.
Il progetto nasce per opera di Grace Brown, una fotografa ventenne di New York City a cui nell’ottobre del 2011 un’amica racconta la sua storia di violenza. Grace lavorava già con le vittime di violenze sessuali, ma quella storia così vicina e taciuta per tanto tempo, la scuote.
Il giorno dopo, inizia il “progetto indistruttibili”.
Lo scopo del progetto è far parlare le donne del loro trauma, utilizzando le immagini, creare una grande narrazione collettiva che aiuti chi partecipa come chi legge.
Grace fotografa vittime di violenza sessuale con cartelli che riportano ciò che lo stupratore diceva mentre le violentava.
Alcune delle foto di “Unbreakable Project”
Non ci sono dati, numeri, statistiche.
Ci sono le parole che un uomo ha detto mentre penetrava il corpo di una donna senza il suo consenso. O poco dopo averlo fatto.
E’ un progetto disturbante. Perchè nel mondo ipersessualizzato in cui viviamo, venire a conoscenza delle vere dinamiche di una violenza, non solo nei dettagli morbosi che riportano i quotidiani, ma nella sua parte più nascosta, meno raccontata, non è qualcosa a cui tutti sono pronti.
Perchè la domanda “cosa diceva mentre ti violentava?” apre delle pagine devastanti su chi e come sono gli uomini che violentano e come davvero impongono questa violenza. Perchè è la domanda più intima da sentirsi fare e voler rispondere con un cartello, magari mettendo anche a disposizione il proprio volto scoperto è un atto difficile, ma rivoluzionario.
Fino ad oggi Grace ha fotografato più di 400 donne e ha ricevuto più di mille foto di vittime. Anzi, di “sopravvissute”.
Donne che hanno subito abusi da piccolissime, da teenager, da ubriache, dal capo, in famiglia. Ma che non si solo lasciate distruggere.
Il progetto è aperto anche a uomini, trans, genderqueer. La maggior parte delle storie però è al femminile.
Un percorso di guarigione attraverso l’arte, forse più utile di tutte le pubblicità progresso.
Come prendere un appunto della parte più dolorosa dell’atto, scriverlo, condividerlo, espellerlo dal proprio corpo, dalla propria vita.
Sul sito del progetto, come sulla pagina facebook è specificato che nè la fotografa nè alcuno dei collaboratori al progetto è un operatore antiviolenza autorizzato a dare consigli o assistenza, ma per questo, negli USA come in Italia ( sempre meno ) vi sono sportelli e centri antiviolenza discreti e gratuiti.
Per partecipare, si può scrivere una mail a projectunbreakablesubmissions@gmail.com , inviando una foto chiara con un cartello con la citazione di cui ci si vuole liberare. Sperando che a breve si possa realizzare un progetto simile in Italia. Noi ci stiamo pensando.