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L’arte di vincere

Creato il 15 febbraio 2012 da Thefreak @TheFreak_ITA

“la più gloriosa vittoria è vincere se stessi”

L’arte di vincere è un film diretto da Bennett Miller ed è una storia di Baseball. Se non sapete cos’è il Baseball in America provate a gettare un ponte su quello che rappresenta il calcio in Italia e potrete immaginare un mondo composto della stessa pasta di paritarie emozioni.

Il Baseball concepito con enfasi, passione, ma anche schermi, consuetudini, turni, tornei, team e mercato acquisti.

Una fotografia di stadi vuoti e un team manager, Brad Pitt che recita la parte dell’eroe in perdita, in profonda antitesi con l’idea che nella carriera e nei ruoli gli si è cucita addosso. Un Ettore al netto di tutti gli Achille interpretati, un uomo ruvido e bello ma in questo caso di una fragilità accentuata in tic vistosi, scaramanzie, forti silenzi e movenze schive e lunatiche.

Il Baseball come unico modo per esorcizzare vissuti privati che si incastrano dentro un gioco su cui tutti hanno una precisa opinione, su cui tutti hanno la soluzione e le ricette, su cui tutti puntano e giocano ma, sembra, per sopravvivere.

E il gioco è vittoria, si perde sangue e fiato per vincere, si sprecano le esistenze e si incassano le fatiche per vincere, si consumano parole e soldi per vincere, e il Billy/Brad Pitt agisce e combatte per vincere. Ma su tavoli paralleli.

Riscattare adolescenze rubate da scout reclutatori di speculazioni e non di uomini, riscattare un’idea, un sogno, riscattare un’esistenza squarciata da finali incompleti, e vincere anche se non in Ferrari ma a bordo di un’utilitaria tenuta bene.

Il Baseball è appunto l’America: ne racconta i vezzi e le virtù, le estreme contraddizioni e la sua gente, i sentimenti più istintivi e la determinazione di un progetto comune, esteso, potente.

Billy non è il Tony D’Amato alias Al Pacino di “Ogni maledetta domenica” di Oliver Stone, anche se ne condivide una certa malinconia e una certa disperata preghiera di riscatto, ma non è lui. Non si accosta di petto ai suoi giocatori, non interferisce nelle loro quotidianità, non li va a riprendere nelle notti balorde e alcoliche. Li vuole in campo e vuole vincere.

E se tutto questo non è abbastanza, se i traguardi non sono la vetta ultima, se i piani non vengono schierati come recita un copione, se il Baseball non può sfamare un’esigenza di rinascita e di appagamento, il Baseball è allora un ennesimo filtro con cui sfidare il mondo, l’ennesima maschera per macinare giorni e non giocare completamente a nudo, il Baseball muta la sua natura fisica e tattica e si plasma in una romantica ambizione personale ed umana.

E l’anima del Baseball è lo specchio che riflette le confusioni dei protagonisti, i disagi e le prospettive, mentre il film scorre con forte e incalzante pathos, partita dopo partita, risultato dopo risultato per concedere un finale che non è dato sapere.

Un finale che lascerà negli occhi di chi guarda l’idea terminale che in fondo vincere è andare oltre ogni fuori campo battuto, oltre ogni giro riuscito, oltre ogni match portato a casa, e perché, per parafrasare Tony D’Amato, ogni maledetta domenica si vince o si perde e il margine tra la vita il Baseball è ridottissimo e ciò che è bene capire è se si vince o si perde da veri uomini.


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