L’articolo che avrei voluto scrivere è quello in ricordo di Ingmar Bergman, morto sull’isola di Fårö il 30 luglio del 2007.
Non un articolo qualunque. Sarebbe stato inutile scrivere un pezzo di circostanza, sciorinando dati biografici e filmografici arcinoti o esprimendo l’ennesimo giudizio critico nell’ambizioso tentativo di aggiungere qualcosa di nuovo e originale alla sterminata letteratura a lui dedicata.
Ho cominciato a pensarci a metà luglio, rimandando di giorno in giorno, incapace di dar bella forma al magma di pensieri e di sentimenti che avrei voluto esprimere.
Oggi è il primo agosto, un giorno qualunque, ed è in questo giorno qualunque, senza alcun intento celebrativo, che riesco a trovare le parole più schiette per confessare tutto l’amore che io nutro nei confronti di Ingmar Bergman.
Quando ebbi la notizia della sua morte rimasi impietrito, sentii che nella mia vita si era verificato uno strappo e, come già mi era accaduto in occasione della scomparsa di Tarkovskij, scoppiai in lacrime, allo stesso modo di un bambino che avesse perso il padre.
E’ vero che uomini come Bergman non muoiono mai, perché rimangono le loro opere, ma io sentii egualmente la sua morte come una insopportabile privazione, quasi come un’amputazione dell’anima.
Ho visto e rivisto tutti i suoi film, alcuni molte volte, e non c’è stato giorno della mia vita, da quand’ero bambino, in cui non gli abbia dedicato un pensiero, in cui non lo abbia sentito vicino come artista, ma soprattutto come Uomo, nella disperata ricerca della mia verità interiore e nell’ascolto dell’assordante silenzio di Dio.
Definirlo un maestro del cinema mi parrebbe riduttivo: in lui, come in certi geni del rinascimento, si sommano virtù umane, intellettuali e artistiche somme, che lo rendono, a mio giudizio, uno degli uomini più grandi di tutti i tempi, capace come pochi di sondare le profondità dell’animo umano e del mistero delle nostre origini e del nostro destino contingente e trascendente.
Difficile scegliere nella teoria di immagini filmiche che sfila nella mia mente quelle più rappresentative: forse la grande “Pietà laica” di “Sussurri e grida”, forse la partita a scacchi fra il Cavaliere e la Morte de “Il Settimo Sigillo” o forse il festoso corteo celeste dei morti che conclude il film…quasi una promessa di vita oltre la vita, che sfila dinnanzi agli occhi del buffone che stringe al petto, come simbolo almeno di certa speranza terrena, il tenero, innocente e inconsapevole frutto del suo amore.
Federico Bernardini
Illustrazione: Ingmar Bergman, fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:Ingmar_Bergman.jpg