“Ci adopereremo per espellere inosservati la popolazione povera oltreconfine, procurandole occupazione nei Paesi in cui transiterà, ma negandogliela nel nostro […] sia il processo di espropriazione sia l’allontanamento dei poveri devono essere portati avanti in maniera discreta e cauta”1Theodor Herzl, padre fondatore del sionismo, 12 giugno 1895
Nella gestione della “questione palestinese”, l’elemento distintivo del sionismo, almeno nella corrente che ha prevalso, è la coerenza. La resistenza agli anni del suo approccio nei confronti delle sorti del popolo palestinese è evidente, tra gli altri, nel pensiero della presidentessa israeliana Golda Meir, che ancora a cavallo degli anni Sessanta e Settanta negava la stessa esistenza di qualsiasi entità che potesse definirsi palestinese2. A sostegno della longevità dell’impianto ideologico sionista – e delle sue puntuali applicazioni sul campo – stanno tuttora contribuendo almeno tre fattori. Il primo è il ruolo della comunità internazionale, tanto passiva nelle posizioni sul conflitto israelo-palestinese quanto fedele ad un double standard che elude ogni possibile giudizio razionale e basato sui fatti in merito alle responsabilità israeliane e palestinesi. Il secondo è il ruolo degli Stati Uniti. Soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, Washington si erge a paladino degli interessi israeliani, interlocutore essenziale di una special relation, che si alimenta annualmente con i cospicui aiuti economici e militari forniti al governo israeliano, trovando fedele riscontro sul piano politico. C’è poi un elemento di carattere puramente storico. Si tratta dell’evasione di ogni dibattito che riguardi fatti precedenti al 1967 – anno della Guerra dei Sei Giorni, al termine della quale Israele si ritrova padrone della penisola del Sinai, delle alture del Golan, di Gaza e della Cisgiordania3 – la cui analisi è essenziale per comprendere le radici e le origini di un conflitto che è ancora oggi cartina di tornasole della configurazione dei rapporti tra Occidente e mondo arabo. La Nakba (“catastrofe”) palestinese del 1948 – per gli israeliani anno epico della nascita del loro Stato – è un evento cancellato dall’ordine del giorno di qualsiasi iniziativa diplomatica assunta sul conflitto. E’ in quell’anno, esattamente il 10 marzo, che l’establishment sionista dell’epoca ultimò il Piano Dalet, un piano di pulizia di Eretz Israel (denominazione ebraica della Palestina) della popolazione nativa che nel giro di sei mesi portò alla distruzione di 531 villaggi e 11 quartieri urbani, con l’espulsione dii circa 750.000 abitanti4. Questo tabù storico trova una sua applicazione sul tavolo diplomatico, nell’ambito del quale si omettono questioni cruciali per i palestinesi, quali il diritto al ritorno.
Il 13 settembre del 1993 vennero firmati gli Accordi di Oslo. Il presidente nordamericano Bill Clinton, sul prato della Casa Bianca, fece da padrone di casa alla storica stretta di mano tra Yasser Arafat e Yithzak Rabin. E’ probabilmente il momento che più di ogni altro racchiude le principali caratteristiche dei tavoli diplomatici sul conflitto: asimmetria, speranze, entusiasmi e scarsa attenzione ai reali contenuti. “Dal nostro punto di vista, non si tratta propriamente di un dare-avere, l’OLP può dare davvero poco ad Israele. Loro non hanno terra, autorità, né mezzi. Per molti versi è più una trattativa con noi stessi, in quanto la domanda che ci guida è: che tipo di Israele vogliamo avere in futuro?”5. Il commento di Shimon Peres – al quale fu assegnato il Premio Nobel per la pace con Rabin ed Arafat – testimonia quello che, nonostante l’entusiastico benvenuto con cui l’opinione pubblica ha accolto “una nuova era di pace in Medio Oriente”, era il rapporto di forze ed il nucleo delle intese e dei protocolli racchiusi in quella stretta di mano.
Il documento che viene firmato a Washington, frutto delle trattative che si sono svolte per circa dieci mesi attraverso il “canale norvegese” – promosse dal ministro degli Esteri di Oslo, Johan Jorgen Holst – tra Israele e OLP, è denominato “Declaration of Principles on Interim Self-Government Arrangements between Israel and Palestinian Liberation Organization” ed è costituito da diciassette articoli e diversi allegati. Esso rappresenta una “agenda for future negotiations” che va a scandire i passi futuri del processo, non, quindi, un accordo di pace vero e proprio. Nel settembre del 1995 viene siglato l’Accordo ad interim israelo-palestinese per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, il c.d. Oslo II. Uno degli elementi più importanti di questo accordo è la determinazione di una Cisgiordania divisa in tre zone (A, B, e C). Nel 2000 la zona A, sotto esclusivo controllo palestinese, costituiva il 17,2%, con Israele che quindi controllava di fatto circa l’83% del territorio, avendo potere esclusivo sulla zona C e detenendo il controllo sulla sicurezza della zona B. Il carattere distintivo della mappa della Cisgiordania odierna, più che nell’estensione in sè dei territori sotto il controllo palestinese, risiede nell’assoluta assenza di contiguità territoriale. Nel 1999, in Cisgiordania, gli Accordi di Oslo avevano dato vita a 227 enclave sotto controllo totale o parziale dell’Autorità palestinese. Circa l’88% di esse misurava meno di due chilometri quadrati e tutti i palestinesi della Cisgiordania abitavano nel raggio di sei chilometri da territori classificati dal processo di Oslo come zona C, sotto esclusivo controllo israeliano.
Come fa notare Sara Roy – del Centre of Middle Eastern Studies dell’Università di Harvard ed eminente studiosa del conflitto israelo-palestinese – dietro tale struttura della mappa della Cisgiordania, che ha conseguenze devastanti sulla condizione di vita dei palestinesi dal punto di vista della libertà di movimento e sotto l’aspetto economico, si cela una politica ben precisa, inaugurata proprio negli anni ’90: la c.d. politica dei confinamenti. “La politica israeliana dei confinamenti – afferma la studiosa americana – rappresenta il fattore più deleterio per l’attività economica palestinese e la vita della popolazione. Il confinamento è stato imposto per la prima volta nel marzo del 1993, prima della firma del primo Accordo di Oslo nel settembre dello stesso anno, e da allora è sempre in vigore. Tramite il processo di Oslo si è usato il confinamento per dividere, isolare, reprimere le comunità palestinesi. Con l’Intifada di Al-Aqsa (settembre 2000 nda) la politica del confinamento ha trovato la propria espressione più estrema, quella dell’assedio e dell’accerchiamento, disgregando e separando le comunità palestinesi con grave danno per il benessere individuale e collettivo. Eppure in Occidente di questa politica non si sa quasi nulla”6.
La politica dei confinamenti ha delle ripercussioni sull’economia palestinese, in termini di regressione e compressione, ben visibile nelle statistiche e nelle cifre che il “processo di Oslo” ha prodotto. Il tasso di disoccupazione tra il 1992 ed il 1996 è cresciuto dal 3% al 28%, di oltre nove volte, tra i più alti al mondo secondo la Banca Mondiale. Nello stesso periodo il Prodotto nazionale lordo è calato del 18,4% in termini reali, mentre quello pro-capite è precipitato di una quota pari al 37%. L’organizzazione internazionale per i diritti umani Amnesty International nel report Five Years after Oslo Agreement: human rights sacrificed for «security» afferma:
“[…] L’uccisione di palestinesi da parte dei servizi di sicurezza israeliani o dei coloni ha portato agli attentati suicidi e alla morte di civili israeliani. Questa ha portato a sua volta a ondate di arresti arbitrari, detenzioni in isolamento, torture e processi ingiusti. Vittima principale di queste violazioni è la popolazione palestinese […] I territori occupati sono diventati una terra di barriere, per lo più erette dai servizi di sicurezza israeliani, tra città e città, tra villaggio e villaggio”7.
Un aspetto di importanza capitale, e che va sottolineato in questa sede, è che ad oggi – senza considerare la situazione umanitaria drammatica in cui versa la popolazione della Striscia di Gaza – la frammentazione della base territoriale palestinese sulla quale dovrebbe sorgere un futuro e potenziale Stato, smentisce il pilastro stesso su cui si fonda il processo di pace: il principio dei “due Stati due popoli”. Nel contesto di comunità palestinesi accerchiate, la politica degli insediamenti e la progressiva colonizzazione israeliana sbarrano la strada al solo pensare uno spazio geografico dove possa sorgere uno Stato palestinese, a meno che non vengano rimessi in discussione i parametri negoziali della diplomazia del conflitto. Quest’ultima, fino ad ora, si è retta su linee guida che, come osserva lo storico israeliano Ilan Pappe, “sono state formulate dalle classi dirigenti israeliane, secondo i propri interessi” nel periodo successivo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, a partire dalla quale – e qui torniamo al tabù storico – tutto ciò che precede questa data è diventato non negoziabile. La schiacciante asimmetria tra gli attori – trasversale a tutti gli aspetti del conflitto, e che riecheggia nelle parole di Shimon Peres sopra richiamate rispetto alle negoziazioni di Oslo – resta oggi la caratteristica dominante. Con tali connotazioni la stessa espressione “processo di pace” appare non adatta a rappresentare la realtà diplomatica e politica, compromettendo qualsiasi spiraglio di dialogo costruttivo. Nel confezionamento di tale paradigma negoziale e del suo accesso all’opinione pubblica mondiale nel corso degli ultimi decenni, il ruolo svolto dagli Stati Uniti è cruciale. “ll principale ruolo esercitato dagli americani – sottolinea Pappe – è stato di presentare al mondo questi precetti (le linee israeliane del “processo di pace” nda) in maniera positiva, quali «concessioni israeliane», «comportamento ragionevole» e «posizioni flessibili»”8.