Magazine Cultura
Entri in sala, il Teatro Studio che sempre dà una sensazione di accoglienza, di abbraccio con le sue balconate semicircolari, e trovi una fila di sedie a delimitare i tre lati della scena spoglia. Dal quarto lato (il fondo) arriva un fascio di luce dritto e intenso come un fucile puntato addosso. Dopo i primi istanti noti che alcuni spettatori sono immobili, li guardi meglio e ti rendi conto che sono manichini incredibilmente somiglianti a persone reali. Prima sensazione di disagio.Entra il protagonista, chiude la parete che fa da fondale/muro del pianto/lavagna, per un momento si abbassano le luci in sala, per poi riaccendersi subito a illuminare il pubblico. Il protagonista, con movimenti precisi, in controtempo, calcolati e misurati si arma: coltello, munizioni, imbraccia il fucile. Inizia l'assedio.A tenere il fucile puntato sugli spettatori è il Sebastian Bosse rappresentato da Lars Norén, autore che con i suoi testi ci mette davanti alle inquietudini, agli interrogativi, agli orrori della nosta società. Il ragazzo tedesco che una mattina del 2006 si è presentato a scuola armato fino ai denti e ha aperto il fuoco su insegnanti e compagni di classe, per poi uccidersi, è rappresentato prima che la tragedia avvenga: quella mattina, prima di andare a scuola.Lars Norén non cerca giustificazioni, non dà giudizi, ma pone lo spettatore in maniera problematica di fronte ai limiti della nostra società, e l'impatto forte che hanno i suoi testi ci coinvolgono in prima persona. L'obiettivo non è la "denuncia", non è la "fotografia" della società, ma la "lente d'ingrandimento" (come ha scritto Luca Ronconi) attraverso la voce della parte debole della società, di coloro che subiscono, che soccombono ("Se la gente non sostiene la vita si può anche ammazzare"). Sebastian Bosse è un adolescente che non ha avuto punti di riferimento e non ha ricevuto gli strumenti per poter crescere all'interno della società in cui ha vissuto, dove ha cercato degli interlocutori senza trovarli. La sera prima del suo gesto ha postato su YouTube (ormai veicolo fallace di comunicazioni frammentarie, equivocabili, illusorie di un tutto che non rappresentano) un video a cui ha affidato la spiegazione dei motivi che l'hanno indotto a compotarsi come ha fatto. Sebastian voleva urlare il proprio disagio, ma si è sentito perseguitato e ha usato un altro modo di comunicare, quello delle armi (che per lui rappresentavano un valore). Emerge chiaramente dal testo il protagonismo di Sebastian nella sottolineatura della propria soggettività: "La mia ora", "Sono io che decide". Voleva essere protagonista di una vita che ha sempre vissuto in disparte, alimentando il sentimento di essere sfigato, fallito, fottuto.Da queste suggestioni è nata l'idea registica di Russo Alesi di mescolare tra pubblico vero il pubblico dei manichini: rappresentano gli interlocutori reali di Sebastian, quelli che non hanno saputo comprendere il suo disagio. Lars Norén chiama in causa il pubblico vero a intervenire quando la tragedia non è ancora avvenuta per cambiare il corso degli eventi, per trovare delle risposte agli interrogativi che Sebastian pone guardando violentemente negli occhi lo spettatore. Nel luogo della cultura e dell'incontro (il teatro) Norén innalza la storia di Sebastian a portavoce del disagio non solo giovanile, ma sociale e culturale che coinvolge tutto il mondo occidentale. Interrogativi sulla ricerca della felicità, sul consumismo, sull'omologazione, sul senso della vita, sulle prospettive future (il protagonista scrive sulla lavagna Se questo è il futuro non mi interessa), sulla sete di avere sempre di più, cercano una possibile risposta e impongono una riflessione non passiva sul ruolo delle istituzioni come scuola e famiglia.A scandire i tempi della storia il cronometro, come una bomba a orologeria. Alla fine a esplodere di fronte agli occhi degli spettatori è il video, questa volta vero, di Sebastian. Un ragazzo come tanti altri, solo e con un bisogno disperato di comunicare e comunicarsi. Fausto Russo Alesi ha impostato una regia precisa e con idee efficaci, e da interprete l'ha seguita con rigore e coerenza - come di consueto. Ha scavato nelle pause individuate nel testo per trovare sensi profondi alle parole, che in alcuni momenti si sono fatte quasi monologo interiore. Ha condiviso con il protagonista il tortuoso percorso interiore verso un gesto estremo, con un'intensità emozionante che ha trasmesso tutta la violenza del testo. In entrambe le due repliche che abbiamo visto il pubblico non ha dato risposta diretta alle domande che si è sentito rivolgere dal protagonista. Un atteggiamento dovuto a diversi fattori: in primo luogo alla rigidità del pubblico italiano, abituato a interagire con l'attore in scena solo in presenza dell'elemento comico (non riferito esclusivamente al cabaret o dintorni, ma anche a spettacoli di prosa di forte matrice comica, come per esempio l'Arlecchino di Soleri); pubblico italiano invece a disagio nelle situazioni di prosa drammatica (e già mettono in imbarazzo le luci in sala perché suggeriscono un sentimento di coinvolgimento che da Wagner in poi si è lentamente spento fino all'attuale assopimento intellettuale). In secondo luogo il Teatro Studio non ha la forza claustrofobica della Scatola Magica (dove è stato allestito lo spettacolo la scorsa stagione): risultando più dispersivo lo spazio, è risultato indebolito anche l'urto emotivo che poteva spingere il pubblico a rispondere a voce alta a quegli interrogativi. Infine l'impostazione recitativa di Russo Alesi ha creato una linea di distacco con il pubblico: un'interpretazione non naturalistica, eppure così vera, prestata a una materia umana non condivisibile, semmai catartica, con un chiaro intento di mettere sotto pressione gli interlocutori/spettatori accusandoli (Voi non siete innocenti!). Emozioni troppo forti per poter dare voce a una reazione.
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