Ho ricevuto uno splendido cadeau e chi me l’ha donato ha acconsentito a che le parole non scolorissero su un foglio di carta ingiallito.
Un giorno da un buco nel terreno uscì un uomo.
Benché avesse appena scavalcato i trent’anni, si portava addosso una faccia che non ne dimostrava più di venticinque, perlomeno quando aveva la barba tagliata; si trascinava dietro un sacco con dentro tutto quello che aveva al mondo.
Stava sempre da solo ma sosteneva ugualmente di essere il sovrano di un qualche sperduto reame, e in questa veste si presentava alla corte di vari re e prìncipi e duchi e arciduchi.
Lungo la via aveva acquistato dei cavallini pelle e ossa per farne regalo a quei rispettabili signori, assieme a qualcosa di quel poco che conservava nel sacco.
Sette troni visitò, e sette volte si prostrò e offrì il meglio di ciò che aveva, non per piaggeria ma solo perché il suo cuore non avrebbe sopportato di passare attraverso quei paesi senza rendere omaggio a chi li guidava.
In ogni reggia però si sentì umiliato, nonostante gli ospiti lo trattassero con ogni riguardo facendogli anche visitare i posti più suggestivi delle loro nazioni; però lui confrontò ciò che portava con ciò che gli altri già possedevano e ne fu sconfortato.
Lui aveva collanine bagnate nell’argento e gli altri sfarzose collane d’oro traboccanti di pietre preziose; lui aveva uno specchio incrinato e gli altri altissimi specchi a muro talmente lustri che guardandocisi attraverso si riusciva a veder dentro di sé; lui aveva pochi cavallini magri e gli altri scuderie affollate di splendidi e possenti purosangue; lui aveva un libriccino di proverbi piegato e umido e gli altri biblioteche talmente ampie che non bastava un giorno a percorrerle per intero.
Ma più umiliante ancora era la bontà d’animo di tutti loro, nessuno di loro ostentò le proprie ricchezze e nessuno di loro si sdegnò della pochezza dei doni che l’uomo portava con sé; così l’uomo dovette costatare che nemmeno il suo cuore era all’altezza di quelle nobili figure e, una sera in cui il vento aveva preso a mormorare una cantilena che gli pareva di riconoscere, decise di tornare sui suoi passi.
Bellissima fiaba, dall’atmosfera suggestiva, quasi medievale e feudale, e dal profondo significato esistenziale: la parabola di una vita, il peregrinare di un giovane giullare alla ricerca della sua collocazione nel mondo.
Si sente inadatto ai regni che visita; troppo evidente ai suoi occhi la differenza tra il suo sacco, le sue cose e lo sfavillio dei luoghi in cui è accolto; trova inadeguato persino il suo cuore.
Reagisce? No, rinuncia e rientra nella tana da cui è uscito. Sceglie il silenzio e l’oblio. Meglio sparire che elemosinare gentilezza e cordialità; preferisce l’isolamento nel suo sperduto reame in nome di un personale concetto di dignità.
Ma forse, durante il suo vagabondare, non raccoglie e non mette nel sacco il messaggio positivo che il mondo gli invia: troppo forte il richiamo di un’egocentrica cantilena.
Perché il nostro giovane uomo, dall’apparenza dimessa e modesta, è in fondo un eroe orgoglioso, personaggio di un’epopea cavalleresca pronto al sacrificio di sé e ostile al baratto.
Nell’universo delle relazioni interpersonali, quelle vere e autentiche, reali o virtuali (fa differenza?…) non esistono monarchi né sudditi, ma persone; non castelli né corti, ma case. Tutti sono ugualmente sparsi per le strade del mondo, Worldland o Blogland che sia.
Ha importanza se si percorrono autostrade o sentieri tra i campi? se si sceglie la velocità che fa intravedere o la lentezza che permette di osservare? Si arriva comunque alla meta …
Tutti suonano una tastiera: ha importanza se è un pianoforte a coda, una fisarmonica o una spinetta usata? Esce comunque armonia …
Ognuno ha il proprio sacco di esperienze, il proprio carico di sensibilità e potenzialità; ogni casa ha il proprio peculiare arredo.
Non esiste gerarchia, non un meglio o un peggio, solo una varietà di ‘sacchi’ contenenti talenti di vario peso e diverse grandezze, bagagli unici e irripetibili, non preconfezionati ma fatti ‘su misura’.
Non conta ciò che si ha, ma ciò che si fa con quel che si è.
E, tornando al nostro eroe, se fosse il suo passaggio, quasi da giovane menestrello trovatore, a dare splendore ai regni che visita? a risvegliare la bontà d’animo dei suoi ospiti e il loro sentimento d’accoglienza? a illuminare le loro dimore?
Invece, davanti a un grande specchio a muro che riflette il suo io interiore, arretra, gira le spalle e se ne va. Vedere la sua ricchezza, ossia ciò che è, lo spaventa forse?
In questi giorni, nel mio vagabondare mi sono imbattuta in uno di quei cartelli che ci si piazzano davanti agli incroci della metropoli Webcity, ma capita anche nel sobborgo di Blogland, e che propinano sentenze e verità assolute
M’inchino al genio di Oscar Wilde, ma mi permetto di dissentire in questo caso.
L’assenza non è un regalo; lo è semmai il Tempo, e non la quantità di giorni o di ore, bensì l’intensità anche di pochi minuti dedicati all’ascolto delle parole altrui e all’elargizione delle nostre.
Nel sacco, in mezzo a tutto ciò che abbiamo, c’è questo dono, il più prezioso che possa esistere.
Un vero peccato seppellirlo.