L’aumento dell’Iva, ovvero la tassa sui consumi, sarebbe la via maestra per ostacolare consumi smodati. Ma ovviamente tra chi governa non se ne sente alcuna necessità, figuriamoci tra i “consumatori” che scaricano i propri stress quotidiani nello shopping compulsivo, meglio se tra la folla disumanatadi qualche centro commerciale La sola minaccia di rialzo è vista anzi come una bestemmia inaudibile, dacché oggi il mercato e la produzione si basano primariamente sulla capacità di consumare, di farci intestini digerenti pronti a spurgare ogni nuovo bisogno surrettizio d’”innovazione” (la monolitica legge di Say dice infatti che è la domanda a creare l’offerta e non viceversa! Della serie: non compro ciò che mi serve per vivere, ma ciò che il mercato mi suggerisce di consumare!).
In realtà, il consumismo non è sempre stato un valore condiviso. Nel medioevo, ad esempio, la povertà cristiana era vista come un ritorno agli autentici valori evangelici; gli stessi borghesi premoderni, specie nell’Italia comunale e rinascimentale, consideravano la frugalità, l’avarizia e il risparmio, come uno dei modi per potersi arricchire (in un noto adagio dell’epoca, l’accumulatore, ovvero il borghese, era una figura codificata in contrasto al nobile, al dissipatore). In tal senso, forse, non è nemmeno necessario andare troppo lontano nella storia, per poter trovare significativi esempi di come il consumismo senza senso, esagerato (quello che però fa
Pil), non fosse visto di buon occhio dalla società: addirittura prima del boom economico si poteva essere “poveri ma felici”, indigenti ma non dei reietti sociali. E’ stata invece l’intrusione del denaro in ogni ambito dell’esistenza (la più astratta delle cose, capace di rappresentarle tutte e di trasformarle equamente in mezzo, uomo compreso), ad infettare i vetusti comportamenti di quel “piccolo mondo antico” ormai definitivamente scomparso. Per dirla con Sombart, è stata l’economia monetaria “ad abituare l’uomo alla contemplazione puramente quantitativa del mondo”.Oggi si è così completamente perso quel valore di sobrietà e di morigeratezza virtuosa, tanto più da parte delle istituzioni, chiamate a fungere da sacerdoti del capitalismo finanziario e non più da creatori di senso e di valori: le tasse alte sono infatti sempre nemiche dei consumi e di quel capitalismo imperante fuori dal quale non sembra esistere legge alcuna. I consumi, sembrano suggerirci le istituzioni e il mondo produttivo con le proprie azioni, sono quindi sempre “buoni” a prescindere. Da questo punto di vista anche lo Stato si comporta come un “privato qualunque”: egli deve anzitutto fare profitti e vuole la ricetta migliore per ottenerli. Non importa che si discuta sulla quantità della tassazione: tasse alte o tasse basse, la discussione verte comunque sul come far prendere allo Stato (o far circolare nello Stato) più soldi possibili. Ma le tasse indirette, come l’Iva, a differenza di quelle dirette, nella loro leviatana assurdità, dovrebbero provare invece ad essere “pedagogiche”, in grado di dare un indirizzo virtuoso, “umanista”, ai comportamenti. Così facendo si potrebbe lasciar scegliere ai cittadini, democraticamente, quali ritengono necessari. Con un’Iva alta si potrebbe infatti centellinare, scegliere, su quali consumi indirizzarsi, e tra consumi fini a se stessi e consumi che sono investimenti per la formazione e l’elevazione del proprio essere, sarebbe curioso poter vedere verso quali lidi si dirigerà allora il maturo consumatore italiano. Non sarebbero più coloro che li elargiscono, come oggi, a stabilire quali siano indispensabili: sarebbe la riaffermazione della regola liberale e dell’inizio del liberismo. Chissà se, ad esempio, la scuola, le biblioteche, i musei, sarebbero allora servizi richiesti dal consapevole cittadino delle democrazie “liberali”… forse… o forse no.