Gianfranco Viesti dopo avere ricordato che l’austerità non è uguale per tutti si sofferma sugli effetti che le politiche pubbliche hanno avuto sulle diverse aree del paese. Sulla base principalmente di un’analisi dei dati relativi al “residuo fiscale” Viesti sostiene che l’austerità ha colpito in modo particolare l’area più debole del paese e cioè il Mezzogiorno. Sulla base di questi risultati Viesti invita a una rinnovata riflessione sulle conseguenze anche di lungo periodo delle scelte di politica economica.
di Gianfranco Viesti
Professore Ordinario di Economia Applicata, Università di Bari
da “Menabò di Etica e Economia“
L’austerità è stata uguale per tutti? Dati alla mano, sembra proprio di no: ha colpito molto di più il Mezzogiorno.
Come ben noto, a partire in particolare dal 2011 l’Italia ha intrapreso politiche macroeconomiche di carattere restrittivo, con l’obiettivo di saldi primari di finanza pubblica coerenti con le nuove, assai più vincolanti, regole approvate in sede europea. Tali politiche sono state accettate da una larga fascia del mondo politico, e dei commentatori, come una sorta di atto dovuto, “senza alternative”, alla luce della crisi dell’euro e del livello del debito pubblico italiano. Tuttavia, una discussione più approfondita sulle caratteristiche e sugli esiti, specie di lungo termine, di queste politiche sarebbe auspicabile. E uno dei temi più rilevanti di tale discussione dovrebbe intitolarsi: “l’austerità non è stata uguale per tutti”. Infatti, nell’ultimo quadriennio i tagli di spesa sono stati asimmetrici; sono state colpite soprattutto alcune politiche, in primis quelle degli investimenti pubblici e dell’istruzione, normalmente considerate fra le più importanti per garantire la crescita nel lungo periodo (per un’analisi più completa si rimanda a Viesti 2015 ).
Ma vi è un’altra rilevante chiave di analisi dell’asimmetria delle politiche dell’”austerità”, del tutto assente nel dibattito, che invece appare di notevole importanza: quella territoriale. L’austerità ha colpito in modo particolare l’area più debole del paese, il Mezzogiorno. Le prove che sia andata così non mancano.
Come risulta dai dati dell’Istat, e come ha sottolineato la Svimez nelle sue Anticipazioni sul Rapporto 2015, l’andamento dell’economia meridionale è stato nell’ultimo quadriennio molto peggiore della media nazionale. Questa circostanza non è affatto ovvia. Anzitutto, contrasta con la tendenza del decennio precedente, nel quale l’andamento del reddito pro capite è stato assai simile fra le grandi circoscrizioni. Inoltre, contrasta con una certa regolarità storica, per cui nelle fasi recessive le performance delle aree più deboli del paese sono meno peggiori della media nazionale, poiché quelle aree dipendono meno dal ciclo internazionale e beneficiano maggiormente dell’intervento pubblico, che si suppone anti-ciclico. La sensibile riapertura dei divari territoriali nell’ultimo quadriennio non è dunque un fatto scontato.
Questi andamenti sembrano essere, in larga misura, proprio una conseguenza delle politiche dell’austerità. L’operatore pubblico ha mutato radicalmente in suo ruolo: da schermo dell’economia si è trasformato in un attore prociclico, che ha aggravato gli effetti della recessione. Ma – e questo è il punto più importante – ciò dipende poco dal fatto che il settore pubblico è più ampio (relativamente al totale dell’economia) nel Mezzogiorno e molto dalla circostanza che le politiche dell’austerità (con i loro effetti depressivi amplificati sulla domanda interna) sono state assai più intense nel Mezzogiorno.
E’ possibile fare questa affermazione innanzitutto sulla base dei dati sul “residuo fiscale” territoriale contenuti nel Rapporto 2014 della Banca d’Italia sulle economie regionali. Il residuo fiscale mostra l’effetto redistributivo implicito delle politiche pubbliche nelle diverse aree del paese. Dato che la tassazione è progressiva, e la fruizione dei principali servizi pubblici (istruzione, sanità, assistenza) è (in teoria) garantita a tutti i cittadini indipendentemente dal reddito, l’azione pubblica che scaturisce dal nostro dettato costituzionale fa sì che vi sia una significativa redistribuzione fra individui. Ma, dato che gli individui a minor reddito si concentrano nelle regioni del Sud del paese, questa redistribuzione può essere letta anche in chiave territoriale. La Banca d’Italia certifica che il residuo fiscale “a vantaggio” del Mezzogiorno si è attestato intorno ai 56 miliardi all’anno fino al 2008. E’ sempre opportuno ricordare che a questo flusso implicito di risorse corrisponde un flusso netto in direzione contraria, di pari importo se non maggiore, dovuto allo sbilancio del commercio interregionale fra Sud e Centro-Nord. Il residuo fiscale è cresciuto fino a 60 miliardi nel 2009-10 ma è poi precipitato a 44 nel 2011-12. Dati più aggiornati potrebbero essere contenuti nell’edizione 2015 del Rapporto, attesa per fine anno.
Che significano questi numeri? A parità di politiche pubbliche, il residuo fiscale tende a aumentare (diminuire) quando l’economia del Mezzogiorno cresce meno (più) della media nazionale. Questo è quanto potrebbe essere avvenuto, fisiologicamente, nel 2009-10, quando il Sud ha avuto un andamento del reddito procapite lievemente peggiore del Centro-Nord (minor ripresa nel 2010). Ma certamente non è avvenuto successivamente: a parità di politiche pubbliche, il residuo fiscale sarebbe dovuto aumentare; invece è drasticamente diminuito. Secondo i calcoli della Banca d’Italia, In valori procapite, esso è sceso fra la media 2009-10 e la media 2011-12 da 2800 a 2000 euro nelle regioni meridionali a statuto ordinario (-29%) e da 3300 a 2900 euro in quelle a statuto speciale (-12%). Ciò significa che vi è stato un mutamento, estremamente ampio, nell’impatto territoriale delle politiche pubbliche.
Questo mutamento è avvenuto sia sul fronte del prelievo che su quello della spesa. Dati territorializzati, sempre di fonte Banca d’Italia e sintetizzati dal grafico in basso, testimoniano che nel Mezzogiorno vi sono stati, a partire dal 2009 ma con maggiore intensità dal 2010, un aumento della tassazione e una diminuzione della spesa più forte che nella media nazionale.
Perché la tassazione è aumentata molto di più nel Mezzogiorno? La risposta è contenuta nei dati presentati dalla Corte dei Conti in un’audizione parlamentare già nel 2014. La Corte documenta come l’aumento della pressione fiscale sia avvenuto prevalentemente in sede locale, e ciò abbia portato ad aliquote (dell’ Irap e delle addizionali Irpef regionali e comunali) molto più elevate nel Mezzogiorno; ciò è avvenuto anche perché dove il reddito è più basso occorrono aliquote maggiori per ottenere lo stesso gettito. Stando alla Corte dei Conti, “sembra emergere, insomma, una sorta di regola distorsiva, in virtù della quale i territori con redditi medi più bassi, espressione di economie più in affanno, sono penalizzati da una pressione fiscale locale più elevata”. E secondo la Banca d’Italia, “nel triennio 2010-12 l’incidenza delle entrate nel Mezzogiorno si è portata, in rapporto al Pil dell’area, su un livello prossimo a quello registrato nel Centro-Nord”.
Anche la spesa pubblica si è ridotta in misura decisamente più intensa al Sud. Ciò sembra dipendere sia da un effetto di composizione fra voci di spesa che da diverse dinamiche all’interno delle stesse voci di spesa; in alcuni casi proseguendo, ma in misura più accentuata, tendenze già visibili negli anni precedenti.
Riguardo al primo aspetto, come si ricordava anche in apertura, la crisi e poi l’austerità hanno portato ad un forte ridimensionamento della spesa per investimenti pubblici: in Italia, fra il 2009 e il 2013 è passata dal 4,4% al 2,7% del PIL; e la spesa per investimenti delle pubbliche amministrazioni (pur essendo su livelli simili se calcolata in valori procapite) ha un peso maggiore sul Pil del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord.
E i fondi strutturali nel Mezzogiorno? Sono già inclusi in questi dati; e non riescono a compensare il calo totale degli investimenti, rappresentandone una quota comunque minoritaria. Sulla base dei dati dei conti pubblici territoriali è infatti possibile verificare che la spesa dei fondi strutturali (espressa in euro costanti 2005) si è mantenuta stabile fra il triennio 2008-10 e il successivo 2011-13, intorno ai 4,4 miliardi annui, mentre è la spesa “nazionale” (risorse ordinarie e del Fondo Sviluppo e Coesione) ad essersi ridotta da 14 a 10,6 miliardi/anno.
Al contrario, con la crisi e l’austerità sono rimaste su livelli elevati, anzi sono lievemente cresciute in termini relativi (dal 19,2% al 20,5% del Pil nello stesso periodo) le prestazioni sociali in denaro; tuttavia la spesa procapite per prestazioni sociali, a causa della minore percentuale di popolazione beneficiaria di prestazioni pensionistiche e del minore importo medio delle stesse, è nel Mezzogiorno circa i tre quarti di quella del Centro-Nord.
Riguardo al secondo aspetto, vi sono diversi casi di importanti politiche pubbliche che registrano riduzioni di spesa più consistenti al Sud. E’ il caso della sanità. Lo stesso studio della Banca d’Italia già più volte citato riporta una riduzione in termini reali della spesa, nel 2009-13, del 6,7% nel Mezzogiorno e del 2,9% nel Centro-Nord. Ancor più netta, sempre stando alla stessa fonte e in riferimento allo stesso periodo, è la dinamica della spesa per istruzione: -14,6% nel Mezzogiorno contro -8,1% nel Centro Nord. Nel capitolo dedicato alla spesa scolastica del Rapporto 2014 della Fondazione Res, Peragine e Viesti, utilizzando dati dei conti pubblici territoriali, trovano che la contrazione (2008-12) della spesa corrente è più ampia al Sud anche se calcolata per studente (-7,6% contro -4,7%), cioè al netto delle dinamiche demografiche. E, in un precedente numero di questo Menabò, Viesti ha mostrato come nel caso dell’università la riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario, tra il 2008 e il 2014, sia stata nettamente più forte al Sud (e al Centro) rispetto alle regioni del Nord. Su scala quantitativamente minore, la Svimez, nello studio citato, ricorda come gli interventi agevolativi per le imprese si siano ridotti anch’essi più fortemente nel Mezzogiorno, e ciò vale anche per il periodo 2011-13. Infine, la Banca d’Italia, ancora una volta nel documento citato, riporta che nei “servizi facenti capo principalmente al settore pubblico”, tra il 2007 e il 2013 l’occupazione al Sud si è contratta del 9,6% mentre nel Centro-Nord è cresciuta del 3,7%.
Tali tendenze sembrano continuare anche negli anni successivi al 2012. Dati elaborati dalla Banca d’Italia (presentati nei diversi fascicoli sulle economie regionali pubblicati nella tarda primavera 2015) mostrano tra il 2012 e il 2014 il carico fiscale locale per una famiglia a “reddito medio” è cresciuto molto più al Sud. Nel triennio 2013-15, secondo le stime della Svimez , la contrazione media annua della spesa pubblica complessiva è stata del 5,4% al Sud e del 2,6% al Centro-Nord.
Questi dati suggeriscono alcune considerazioni.
In primo luogo sarebbe opportuno che questi fatti, di rilevante importanza, fossero meglio noti all’opinione pubblica e al decisore politico, in modo da poter valutare anche gli effetti territoriali delle importanti scelte di politica economica che si sono prese e si vanno prendendo. La Svimez, in suo Comunicato dell’aprile 2015 stima che complessivamente le manovre di finanza pubblica per il 2014 e il 2015 hanno avuto un effetto depressivo sul Pil molto maggiore nel Mezzogiorno che nel resto del paese. Sarebbero necessari studi più approfonditi sull’impatto territoriale di alcune specifiche decisioni, come gli sgravi fiscali per gli occupati a basso reddito (“gli 80 euro”) o la prevista abolizione integrale della tassazione sulla prima casa, che porta con sé anche rilevanti problemi di finanziamento degli enti locali. Soprattutto sarebbe necessaria una riflessione sulle specifiche decisioni che hanno portato alle dinamiche asimmetriche del prelievo e della spesa, frutto di un insieme spesso oscuro e assai articolato di norme settoriali, come notato anche da Fantozzi e De Ioanna con riferimento alla sanità. E sarebbe necessaria anche una lettura integrata delle dinamiche recenti delle disuguaglianze nel nostro paese: le disparità fra i cittadini su base sociale si incrociano infatti in misura sempre più importante e interessante con quelle su base territoriale.
Certamente la fortissima recessione che negli ultimi anni ha investito il Mezzogiorno in misura assai più intensa della media nazionale non può essere imputata alle caratteristiche demo-socio-antropologiche dei suoi abitanti; essa è frutto in misura assai rilevante delle scelte politiche nazionali che, in modo più o meno consapevole, sono state prese. E di questo sarebbe bene avere conoscenza, e discuterne: soprattutto nelle sue implicazioni di medio-lungo periodo sulle disparità fra cittadini e aree territoriali nel nostro paese e sulle possibilità di crescita dei territori più deboli e, quindi, dell’intera economia nazionale.
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