Roma, dal corrispondente
Il Tribeca Film Festival, l’evento newyorkese patrocinato da Robert De Niro, quest’anno offre diversi spunti interessanti: la presenza di 3 pellicole italiane in concorso, il 25° anniversario di “Goodfellas” (Quei bravi Ragazzi) – capolavoro di Martin Scorsese e – last but not least – un documentario intitolato Autism in Love riguardo il delicato e poco conosciuto argomento della vita sentimentale delle persone affette da autismo.
Il regista Matt Fuller e la scrittrice Carolina Groppa affrontano un aspetto particolare della vita di un’ampia fetta di popolazione che, a differenza di quanto si potrebbe pensare, sente forte il desiderio di creare un legame affettivo; ovviamente non tutte le forme sono uguali e molte di queste precludono, purtroppo, questo tipo di rapporti. Ampia fetta, dicevamo, che soltanto in Italia conta tra i 300.000 e i 500.000 casi (ma le stime sono molto al ribasso) e che negli USA, dove gli studi a riguardo sono più attenti, una recente ricerca stima in un caso ogni 68 neonati.
Solitamente si parla di autismo e subito la mente corre, appunto, ai bambini; alle loro difficoltà e a quelle delle famiglie che si trovano a dover gestire questo problema. Ma le vite di queste persone, una volta divenute adulte, come si snodano? Il lavoro di Fuller ha il merito di rendere “pop” l’argomento e di togliere l’alone di mistero, almeno dagli occhi di quanti avranno interesse a guardare il documentario. Documentario, nome forse troppo asettico e legato a qualcosa che rimanda al campo scientifico, se usato per descrivere quelle che in fin dei conti sono semplicemente storie d’amore.
Il racconto parla attraverso le voci dei diretti interessati e dei familiari con cui vivono e raccoglie le ansie, le preoccupazioni e le speranze dei protagonisti delle tre vicende che affronta, quella di Lanny, 22enne alla ricerca di una ragazza (chi a 22 anni non lo è), quella di Lindsey e Dave, fidanzati da circa dieci anni e in odor di matrimonio, e quella di Stephen, che combatte con i suoi forti problemi relazionali e che alla fine scopriremo riservarci una sorpresa inaspettata.
L’autismo, sfortunatamente, è molto più diffuso di quanto non si creda e quello che solitamente viene liquidato come disturbo relazionale, ha in realtà delle sfumature molto complesse che fortunatamente oggi possono essere riconosciute, e quindi trattate, già dal 18esimo mese di vita. L’assistenza è essenziale per svariati motivi, non ultimo il fatto che proprio per l’ampia varietà di possibili forme in cui si manifesta, molti dei soggetti affetti, se debitamente seguiti, possono aspirare ad avere una vita propria che comprende un lavoro e, appunto, una famiglia. Oggi c’è uniformità nel riconoscere l’autismo come un disturbo di origini genetiche, ma fino a pochi anni fa la questione veniva affrontata come fosse un problema psicologico e come tale trattato con semplici sedute.
In Italia qualcosa si sta muovendo per andare incontro alle ingenti spese che queste cure richiedono e molto di quanto ottenuto è dovuto alle tante fondazioni che negli anni sono nate e hanno sollevato la questione fino ai livelli istituzionali. Proprio nel marzo scorso tali associazioni hanno potuto brindare al primo passaggio in Commissione Sanità del Senato di un pacchetto di proposte che mira ad includere anche i trattamenti di riabilitazione per autistici tra i Lea (livelli essenziali di assistenza gratuiti o accompagnati dal ticket).
Tornando però all’ambito artistico, dal quale eravamo partiti, è di questo periodo un’altra produzione, che questa volta segue le vicende di un gruppo di ragazzi autistici alle prese con il coach Mike e i suo i allenamenti preparatori alle USA Special Olympics games. Il titolo è Swim Team e l’importanza di progetti del genere si comprende dalle parole dello stesso allenatore:“A lot of these kids don’t have friends. At one time or another, all of our kids have been ostracized, for them to be part of a team is unbelievable”.
Luca Arleo