L’autodidatta onnivoro

Creato il 16 luglio 2012 da Faustodesiderio

Gianni Vergineo non ha lasciato un ritratto di sé ma notizie varie sugli studi, la formazione e il suo pensiero in alcuni scritti sparsi. Nel primo dei quattro libri della Storia di Benevento e dintorni si può leggere una scheda biografica in cui lo storico parla di sé in terza persona. Esordisce dicendo che la sua vita è stata povera di casi esterni, tutta raccolta in interiore homine e con “pochi fatti, pochissimi misfatti e, per di più, a suo giudizio, irrilevanti”. Non si fatica a credere che i misfatti – chissà quali – furono irrilevanti; quanto ai fatti, invece, furono di rilievo. La monumentale Storia è qui a testimoniarlo per sempre. Ma alla fonte del lavoro storiografico di Gianni Vergineo c’era una concezione degli studi che è il “fatto” più rilevante della sua vita. Lo storico definisce se stesso “autodidatta onnivoro” e, sia pure con modestia, rivendica tra le righe la qualità antiaccademica del suo lavoro. Conviene leggere queste significative righe appena velate dalla sensibilità ironica di Vergineo: “È d’opinione di aver fatto un viaggio d’istruzione irregolare, dalla scuola di avviamento professionale agli studi classici. Perciò gli rincresce di non poter vantare un’epopea degna di uno studioso di razza (anzi pare si dichiari, a questo riguardo, antirazzista). È probabilmente un autodidatta onnivoro. Ha avuto, certamente, buoni maestri; ma è stato forse un cattivo discepolo: si è fatto trascinare, non guidare, finché non è stato in grado di camminare da sé. Di essi ammette con vergogna di non ricordare neppure i nomi. E inorridisce al pensiero di aver desiderato di farne a meno”.

Anche la scelta dell’insegnamento è vista come quasi casuale e definita misteriosa, come se fosse stata indipendente dalla sua volontà. Nel lavoro di docente Vergineo dice di essersi comportato da “libero battitore”, non considerando più di tanto il cerimoniale e dando poco conto allo svolgimento dei programmi per dedicarsi, invece, a invogliare gli alunni a “svolgere se stessi”. Il docente che insegnò per quattro decenni al Liceo Giannone di Benevento era uno spirito antiscolastico perché conosceva bene il senso maieutico della scuola. Anche il suo cattolicesimo non fu militante, refrattario com’era alle gerarchie di potere, sia quelle sacre sia quelle profane. In due righe c’è il suo ritratto: “Alla libertà, come autonomia, crede di poter sacrificare ogni altra ambizione: niente gli sembra più degno di essere perseguito”. Il tratto comune della personalità e della sua opera è proprio questa aspirazione alla libertà che diventa pratica di lavoro tanto nella ricerca e nella storiografia quanto nell’insegnamento.

Nella premessa al primo volume della Storia Vergineo confessa con un escamotage retorico – “non so se questo libro sia il frutto autentico di una mia lunga aspirazione…” – di aver scritto una storia di Benevento per “temi e problemi”, libera dall’erudizione “senza luce di verità”, immune dalle “angustie municipalistiche”, aliena dalla monotonia di un racconto cronologico privo di organicità. La sua più importante opera, forse la sua unica opera, perché gli altri scritti sono quasi tutti “pagine sparse” – e anche il libro su Gaspare del Bufalo o la monografia su Antonio Mellusi e la stessa Virtù espressiva non possono essere accostati alla Storia -, la sua più importante opera non è di certo erudizione, non è municipalismo, non è cronologia e lo sforzo fatto da Vergineo per produrre una storia organica e coerente è stato senz’altro ripagato dal risultato raggiunto e apprezzato da studiosi e lettori. La Storia di Benevento e dintorni è un’opera storico-letteraria di grande respiro non solo perché fu il frutto di uno sforzo lavorativo cospicuo, ma anche perché poggia sul solido pensiero storiografico del suo autore. Proprio nel primo libro c’è un capitolo, subito dopo il prologo sannitico-romano, intitolato “Una chiave di lettura del periodo longobardo”. Non è sbagliato dire che se si vuole intendere l’opera di Gianni Vergineo, non solo l’opera dello storico ma anche quella dell’insegnante, del giornalista e del raffinato conferenziere, bisogna prima di tutto leggere queste pagine in cui lo storico giustifica la periodizzazione della storia beneventana – la storia vera e propria di Benevento inizia con i Longobardi, dunque intorno al 570, e termina con la fine del potere pontificio, quindi con il compimento dell’opera del Risorgimento – con una esposizione del suo criterio ermeneutico. Lo storico di Benevento fu storico nel senso più pieno della parola: la sua è una storia dei “fatti pensati” perché non gli fu estraneo, tutt’altro, il problema filosofico della storia come pensiero e come azione. Vergineo dà una definizione della storia come “scienza dell’esperienza umana” in cui la tradizione critica del pensiero crociano e dello storicismo più smaliziato è più che presente, viva. Non c’è nulla di più lontano da Vergineo dell’idea di una storia oggettiva priva di interpretazione. Per Vergineo non c’è storia senza storico, il quale ha proprio il compito di far parlare i fatti perché “i fatti non parlano. È l’uomo che parla per mezzo di essi. L’uomo li produce e poi li conosce. Tra i fatti e la verità c’è di mezzo la mente umana con tutte le sue contraddizioni”. Non basta avere a propria disposizione una serie sterminata di fatti e documenti perché “ogni atto, anche il più autentico, può essere storicamente un falso, se ciò che è detto o scritto non risponde alla verità delle cose ma ad una intenzione dissimulata”. Qui solo la funzione dell’interpretazione può cogliere la verità che il documento o il fatto non rivelano, ma velano. Ciò accade in particolare con la storia di Benevento perché “si ha a che fare con cronisti incapaci di raccontare i fatti senza odio e senza amore”: da Paolo Diacono a Erchemperto passando per i cronisti benedettini. Eppure, sono proprio loro, i cronisti e gli storici del passato, a costituire la principale fonte per lo storico: “i loro scritti sono autentici, ma la loro voce è spesso falsa, anche se sincera. I fatti parlano il linguaggio della sincerità, non della verità. Un uomo può essere falso, pur essendo sincero. La verità è luce dello spirito; la sincerità è immediatezza psicologica”. Bisogna sottolineare, per intendere questo passo, l’importanza della lezione della migliore tradizione umanistica e dello storicismo assoluto di Croce?

Vergineo crede nella possibilità che si possa fare e scrivere storia perché crede nel valore della verità e nella sua ricerca. Una verità legata alla nostra condizione esistenziale e storica, ma non per questo una verità dimezzata; al contrario, è una verità più ricca di senso, non oziosa, per la quale ci si deve dar da fare per ricostruirla nella storia e nella nostra mente, e perciò stesso più umana e sentita. Ciò che effettivamente interessa Vergineo è portare luce nei fatti che di per sé non solo non parlano, e bisogna invitarli a parlare, ma sono anche inutilmente sterminati. Il rischio dell’erudizione e del municipalismo è evitato da Vergineo sul nascere del suo lavoro. Dividere la storia in locale e nazionale o in minore e maggiore non ha grande senso perché ciò che realmente conta è il giudizio con il quale propriamente si fa storia.

Il problema che ha il maggior storico beneventano nell’iniziare la storia di Benevento è quello di dare un valore ossia di intendere la ritornata barbarie con la presenza dei Longobardi e la nascita del Ducato: “Una cosa è dire che il dominio longobardo rappresenta l’introduzione di una carica di particolarismo germanico nel sistema imperiale latino-cristiano, tendente a valori universali; e un’altra cosa, del tutto diversa, è qualificare tale particolarismo in termini di consenso o dissenso, di approvazione o disapprovazione, con un giudizio di valore riconducibile a schemi di valutazione personali, a scelte, a preferenze, a decisioni. Il giudizio di valore è ammissibile solo come scelta iniziale”. La avalutatività di Max Weber – chiarisce Vergineo per porre meglio in risalto la sua scelta di avvio della storia beneventana e longobarda – non è da intendersi come assenza di valutazione, ma come astensione dalle valutazioni soggettivistiche. Qui Gianni Vergineo, nato a San Bartolomeo in Galdo e trasferitosi ben presto a Benevento e legatissimo alla città, introduce un esempio in prima persona: “Io, ad esempio, ho deciso di scegliere la storia di Benevento come oggetto di studio, perché Benevento è la mia città: ad essa sono legate le mie esperienze più significative, le mie memorie più care, le mie emozioni più profonde. La sua storia è perciò oggetto del mio amore: mi è cara e come tale costituisce il terreno di una affinità elettiva. È qui che nasce il giudizio di valore che mi spinge alla scelta. Ma, una volta fatta la scelta, bisogna dimenticare un simile atteggiamento. Esso mi dà la posizione nell’ambito dell’osservatorio: mi colloca in un punto donde mi è possibile seguire non più la direzione dei miei gusti o affetti o inclinazioni, ma la direzione di un processo che ha la sua logica interna, la quale si impone alla mia attenzione critica, solo che io voglia abbandonare la scala dei miei soggettivi valori”. La bussola dello storico è la ricerca della verità, ma di una verità storicistica in cui Vico e Croce, Hegel e Dielthey e poi Windelband, Rickert e Weber, per citare i nomi che cita l’“autodidatta onnivoro”, ci consentono di avere delle idee abbastanza chiare in merito: la storia e la nostra umanità s’incontrano, il fatto e l’idea si convertono l’uno nell’altra. Il mondo storico è il vichiano mondo civile fatto dagli uomini ed “è suscettibile di comprensione più che di spiegazione, a meno che non si voglia ridurre il mondo storico al modello del mondo naturale”. È in questa comprensione che Vergineo valuta l’invasione longobarda decisiva per l’inizio di una nuova storia da cui nasce “una nuova generazione di Italiani”.

La storia longobarda è all’origine della nuova realtà storica o è un corpo estraneo? I Longobardi danno vigore alla civiltà fino a ringiovanirla e rifondarla o sono dei vandali? C’è fusione con il diritto romano e la civiltà cristiana o solo contrasto e contrapposizione? L’idea del contrasto e del corpo estraneo che considera la storia dei Longobardi esterna alla civiltà romano-cristiana è l’interpretazione cattolico-liberale tendenzialmente guelfa e neoguelfa. L’idea che vede nei Longobardi l’elemento di unificazione di vincitori e vinti, dei germani e dei latini, è l’interpretazione ghibellina e neoghibellina. Gianni Virgineo è cattolico e liberale e tiene fermo il principio del valore della civiltà romana e della cultura cristiana, ma evidenzia l’elemento nuovo che è introdotto dalla presenza dei Longobardi: la stirpe vincitrice. Perché “la storia, come la vita, è fatta di contaminazioni, senza le quali domina la sterilità”. La civiltà classica, Roma e il cristianesimo, non va perduta, ma l’esperienza longobarda è decisiva: “Nell’edificio nuovo entrano molti materiali vecchi, ma in compenso l’edificio non trova riscontro nel passato: il carattere germanico gli è essenziale, anche se gli elementi di costruzione sono desunti dalla realtà romanica”. Lo storico evita unilateralità, anche quando sembrerebbero incontrare più e meglio i suoi valori, e sceglie un’ipotesi maggiormente comprensiva che tenga conto della pluralità degli elementi in gioco. Si può dire senza timore che in Vergineo si incontrano le due strade: quella cattolico-liberale e quella neoghibellina. Qui c’è la radice del pensiero storiografico di Vergineo: il cattolicesimo liberale gli consente di non identificare lo Stato con la Chiesa; la tradizione democratica e ghibellina gli permette di non identificare la Chiesa con lo Stato. Il risultato è una coscienza libera che esige il ruolo dello Stato e proprio perché lo richiede lo incalza e lo limita opponendogli la libertà più vasta del petto e dello spirito umano.

La lettura verginiana della storia di Benevento non è estranea all’altra lettura che è sottesa alla sua storiografia ossia la storia nazionale. I “dintorni” del titolo della Storia non sono meno importanti della storia beneventana proprio perché l’intento dello storico è quello di scrivere una storia organica e non municipalistica. L’idea guida è la cultura umanistica dello storico con la consapevolezza della lotta ideale e incessante che c’è tra Stato e Chiesa che sono due momenti dello spirito prima d’essere due istituzioni.

La posizione di Vergineo nell’osservatorio storico è, dunque, la fusione dei due orizzonti: quello cattolico-liberale e quello democratico-ghibellino. Il valore della Storia di Benevento è senza dubbio da ricercarsi nella conoscenza, ma non si intenderebbe pienamente se lo si isolasse dalla sua radice civile. In fondo, se ricostruiamo la storia è perché vogliamo continuare a creare storia. L’opera di Vergineo ha un valore etico-politico che afferma un’idea compiuta della storia nazionale sulla base di un modello tanto interpretativo quanto educativo. La storia è per Vergineo storia dell’attività spirituale umana e in quanto tale è storia della libertà che può crescere o decadere. Lo scritto su Arturo Bocchini e il fascismo di stato è quanto mai significativo. È uno scritto che risale al 2002 e nacque come introduzione a un testo biografico sul capo della polizia di Mussolini. Il motivo occasionale della sua composizione, però, nulla toglie alla sua qualità e autonomia. Attraverso la figura di Bocchini, lo storico beneventano guarda e distingue la particolarità della dittatura mussoliniana dal totalitarismo tedesco e dal regime totalitario sovietico, individuando nel nazionalismo di Federzoni e di Alfredo Rocco la cultura politica e giuridica che tiene a freno le mire di potere del partito e dei gerarchi. Vergineo condivide l’idea di Croce che vide nel fascismo una malattia spirituale, un malessere circolante nella storia italiana, ma non fa sua l’idea crociana del fascismo come di una parentesi che, una volta rimossa, vede tornare il sereno. Anzi, l’interesse di Vergineo per Arturo Bocchini va ben al di là della stessa figura del “don Arturo di San Giorgio del Sannio” per “cogliere in lui qualcosa di noi”. Anche in questo caso – si potrebbe dire facendo un parallelo e considerando il dramma moderno del totalitarismo che è qualcosa di più della barbarie -, il problema è che valore dare alla “barbarie ritornata”. La vicenda di Bocchini non è una storia personale ma il riassunto di una storia nazionale che è bene conoscere “per capire come eravamo, in un regime espressivo dei nostri affetti peggiori, affinché possiamo riconoscerci meglio e programmarci in una prospettiva più ariosa, più aperta, più libera”. Vergineo indaga il passato ma pensa al presente. O, se si vuole, è spinto dal bisogno pratico di conoscere la storia nazionale, nella sua dimensione europea e oggi mondiale, per creare spiriti liberi perché “oggi sono ancora in circolo tossine di violenze”.

Il saggio su Arturo Bocchini e il fascismo di stato è un piccolo gioiello della produzione storiografica di Vergineo. Possiamo conoscere il fascismo per quello che è stato, ma possiamo capire che fu qualcosa di meno tragico dell’esperienza concentrazionaria tedesca e dell’universo totalitario comunista proprio conoscendo il ruolo svolto dal capo della polizia di Mussolini. In Italia il sopruso e la prevaricazione non scendono nella bestialità, occupano la vita pubblica e la macchina amministrativa ma non varcano la soglia delle mura di casa e della coscienza interiore: due sono le forze culturali e sociali che riescono a fare da muro, dice Vergineo, quella cattolica e quella nazionalista. La Chiesa cattolica si accorda, ma resta un fattore di concorrenza del potere politico e agisce sul piano dell’educazione delle coscienze; la cultura giuridica del nazionalismo, pur non avendo più l’ispirazione della cultura liberale con la distinzione tra Stato e coscienza, agisce all’interno del partito e del movimento fascista limitandone le pretese di piegare lo Stato al volere del partito. Il capo della polizia di Mussolini appartiene a questa scuola, è un nazionalista alla Federzoni – “non fu mai fascista convinto” scrivono Indro Montanelli e Mario Cervi nel loro L’Italia littoria – e per lui lo Stato viene prima del partito e si mostra fedele a Mussolini, del quale è effettivamente il vice – il vice duce -, perché nella salvaguardia della sua funzione prim’ancora che della sua persona mette al sicuro lo Stato e, si potrebbe dire con un gioco di parole non lontano dalla verità, mette al sicuro la sicurezza. “Non per questo, sia chiaro – sottolinea Vergineo – il fascismo si salva dalla condanna. Ma c’è una gerarchia anche nel male”. Il fascismo non scende i gradini dell’inferno del nazionalsocialismo, ma la trasformazione dello Stato liberale in Stato di polizia al servizio della dittatura mussoliniana soffoca la libertà e governa con la paura. Eppure, Bocchini controlla la sua stessa macchina poliziesca facendo attenzione a non scivolare nel fanatismo e nella crudeltà: “È un fatto che in ogni momento egli svolge il suo mestiere con volontà di ferro, rastrellando nemici dappertutto, senza mai cedere a giudizi indiscriminati, ma temperando la durezza di un sistema con guicciardiniana flessibilità”.

Tuttavia, questa è solo una parte della verità storica che interessa Vergineo. È vero: Arturo Bocchini fu uomo dello Stato prima che fascista, anzi fu un fascista molto tiepido, praticamente scettico e il suo scopo era solo quello di ricondurre il partito nazionale fascista all’ordine statale. Dunque, non fascista ma nazionalista. In questo modo faceva gli interessi di Mussolini che doveva guardarsi dagli stessi suoi uomini, fascisti convinti o fascisti opportunisti che fossero. Ma questa, appunto, è solo una parte della verità che interessa il nostro storico e deve interessare anche noi. L’altra parte è quella più interessante ai fini della comprensione della sua opera storiografica e di educatore: nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato di polizia si viene a corrompere un’idea di libertà e di humanitas in cui la stessa coscienza etica, cioè la fonte della libertà, è ricondotta all’ordine costituito dalla forza statale. La libertà qui è identificata con il potere dell’autorità. Ma una libertà così intesa, dipendente in tutto e per tutto dalla sicurezza, è sempre una libertà insicura. Una libertà così intesa non ha nulla da opporre, al di là della forza della sicurezza statale, ai soprusi di potere. Bocchini controllava i fanatici e sapeva benissimo che la dottrina razzista e antisemita era contraria alla sensibilità religiosa degli italiani, come sapeva altrettanto bene che gli italiani rifiutavano la guerra; eppure, non potette opporre, al di là della sua prudenza e dei suoi calcoli e delle sue manovre, nulla allo stesso maldestro opportunismo di Mussolini. Se la libertà è ridotta a sicurezza, che cosa c’è realmente da opporre a uno Stato ingiusto? Lo Stato etico non è solo una dottrina che Giovanni Gentile presta al fascismo e a Mussolini, ma è un rapporto non maturo e non chiarito degli italiani e delle sue classi dirigenti con lo Stato e i suoi assetti amministrativi: è questa la tesi di fondo di Vergineo e, si dirà, l’idea con cui interpreta la storia nazionale per darle un contributo di crescita civile. Per questo motivo, una volta inteso con Croce il fascismo come una malattia etico-politica o un malessere italiano, rifiuta poi l’idea crociana del fascismo come parentesi e vede motivi di continuità prima e dopo il ventennio del regime di Mussolini. La fine del fascismo – il fascismo “cade”, ma non è abbattuto dagli antifascisti – non coincide con la fine dello Stato etico che invece trapassa nella partitocrazia e nella conquista dello Stato da parte delle ideologie di partito. Ma questa, pur con i suoi elementi di continuità e trasformismo, come si usa dire, è un’altra storia. Vergineo la racconta nel quarto libro della Storia e alla sua opera rimandiamo il lettore bendisposto che anche in queste “pagine sparse” che seguono troverà un utile strumento per capire e capirsi.

Introduzione al libro di Gianni Vergineo Arturo Bocchini e il fascismo di stato, Edizioni Il Chiostro, Benevento 2012



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