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L’autostop è frutto sì della mancanza effettiva di mezzi, ma è soprattutto una risposta decisamente ottimistica a questa mancanza, come ribaltamento attivo di una carenza in una potenzialità allo stesso modo effettiva. E' un po' l'istinto dell'imprenditore di osare, lo spirito del pioniere, che trasforma la mancanza in occasione di riscatto. Ma c'è persino di più, c'è anche il gusto vero e proprio di tentare, di provare, di lasciarsi trasportare dagli eventi senza timori o pregiudizi anticipatori. Non si crede alla casualità in quanto tale, ma solo a una serie di eventi ancora da razionalizzare; non si ha paura di tentare nuove strade, di abbandonare i confini sicuri della propria esistenza abituale. Ci si affida a uno sconosciuto perché in realtà non lo si considera tale, ma lo si vede anzi come un compagno di viaggio, un elemento già inserito in quel 'circuito di appropriazione potenziale' che ne fa un 'terreno nostro' e ci è pertanto familiare - il mondo insomma è un organismo unificabile e costantemente a disposizione, una sorta di estensione universale del concetto particolare di proprietà. Il viaggio alla fine è lo scopo del viaggio: si viaggia solo per viaggiare, o quasi, perché in una società in espansione non c'è nulla che non valga la pena di scoprire o analizzare, non si lascia nulla al caso e non c'è niente di scontato.
Impossibile non pensare al Kerouac di On the road. Nella beat generation c’era questo e molto altro, per carità: c’era la rivolta verso la generazione che ha portato alla guerra, anche se vinta; la rivolta contro i costumi ancora troppo puritani e benpensanti della borghesia del tempo - che non si allontana poi così tanto da quella di adesso, ndr -; la rinuncia al consumismo che muoveva non i primi, ma i secondi e terzi passi - e quali passi! - verso la mercificazione di tutti i valori a cui assistiamo nella vita di oggi. C’era questo e molto altro, non c'è dubbio. Ma soprattutto c'era l’autostop, quel polmone grande che respirava forte, che voleva impossessarsi di ogni cosa, in un’ansia persino orientale di esistere e viaggiare insieme al Tutto, di superare anche nella prosa certe regole e geometrizzazioni che si opponevano alla fruizione dell’istante, di quell'attimo transitorio che immediatamente non c'è più. C’era anche sì una patina di negativo, in quel romanzo, ed era proprio la disperazione che era insita nel troppo darsi, nel diffondersi in ogni cosa e che presupponeva la perdita della propria forma iniziale, del proprio nucleo, inteso come punto di partenza o come 'io', o meglio ancora e più semplicemente come casa. E in questo eccessivo spingersi oltre della società in espansione, in questo suo eccessivo slancio c'è già inscritto il suo destino di insuccesso.
Tutto questo apparteneva ad un dato momento storico, a una società che naturalmente oggi non c'è più. Questo è un periodo di prolungato deflusso, di arretramento nei propri confini e di ritorno a quello 'zoccolo duro' che era il punto di partenza di una volta. Ora si ha solo sfiducia e ci si muove nella diffidenza più assoluta, non si fa più niente per niente perché ogni perdita può risultare fatale. In questo clima di tensioni europeiste - anche l’Europa è un organismo troppo grande: è proprio questo che si avverte in questi tempi -, in un’America tutta raccolta in se stessa come una tigre ferita, che colpisce a caso e sempre male perché non ha la mente lucida, e si comporta come una preda impaurita; in questo momento in cui l’onda- ogni onda - si è già ormai ritirata da terra, cosa ci fa un autostoppista per strada, con lo zaino sulle spalle e il cappellino per proteggersi dal sole? Quasi certamente è un bandito, un attentatore e avrà dei complici nascosti, o addirittura è un evaso dal carcere! In ogni caso, sia come sia, è sempre meglio accelerare e andare oltre.
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